Adulto? Chissà cosa significava un tempo questa parola oggi sconosciuta?
Lo svuotamento della parola nonché della condizione di “adulto”, già argomentata dal sottoscritto in questo recente articolo: La scomparsa dell’età adulta, trova sponda nella rivoluzione (qualcuno sostiene la scomparsa) avvenuta gli ultimi decenni di quelli che un tempo in psicologia (con tanto di relative cattedre) chiamavamo cicli vitali. Intendiamoci, non che oggi non si riesca più a distinguere un bambino da un trentenne, naturalmente i cicli vitali continuano ad esistere dal punto di vista biologico e in gran parte anche psicologico, ma l’attuale cultura, specie occidentale, ha prodotto un rimescolamento così profondo delle coordinate precedentemente fondanti le caratteristiche salienti di ciascun ciclo vitale da rendere a volte illeggibile con le categorie precedenti un testo che andrebbe di fatto ri-tradotto alla luce dei cambiamenti attuali.
Noi del settore psy ci ostiniamo invece ad utilizzare nostalgicamente terminologie quali “modalità adolescenziali” riguardo ai nostri contemporanei anagraficamente-adulti laddove dovremmo rassegnarci ad abbandonare le vecchie mappe sulle quali ci orientavamo fino a pochi anni fa e deciderci a ridisegnarle aggiornate.
Mi occupo di questo tema perché la fascia demografica con la quale mi capita più spesso di lavorare come psicologo-psicoterapeuta è proprio quella che va dai 18 ai 40 anni con una concentrazione maggiore nella sotto-fascia 25-35. Mi capita perciò di avere una frequentazione assidua di tale fetta di popolazione e ne comincio ad osservare longitudinalmente, nel corso di generazioni giovanili limitrofe, alcune caratteristiche differenziali che cominciano ad essere piuttosto ricorrenti (e preoccupanti).
Ebbene, mi arrivano a studio sempre più frequentemente giovani 20-30enni che non si pongono minimamente il problema della dipendenza dalla propria famiglia e quindi di converso dell’autonomia, economica, psicologica, affettiva e che già dai 20, ma anche arrivati alle soglie dei 30 anni e a volte anche oltre, non si sono mai preoccupati di cercare un lavoro, di perseguire un’autosufficienza economica, di perseguire obiettivi formativi, insomma di mettere su cantieri ovverosia progettualità esistenziali e, da ultimo, di praticare con costrutto una vita di condivisione sentimentale e a volte di non avvicinarsi nemmeno ad immaginarla. In breve, nel loro ordine del giorno esistenziale non compaiono tutti quei punti che puntavano all’autodeterminazione che caratterizzavano prevalentemente le generazioni precedenti. Un sistema di motivazioni totalmente sovvertito.
Naturalmente i motivi scatenanti per i quali questi giovani raggiungono la mia stanza (panico, ansia, depressioni reattive, delusioni sentimentali, quando va bene) sono del tutto secondari e accessori rispetto alla macroscopica evidenza di un’esistenza ferma proprio nel momento della vita che in genere corrisponde alla fase di massima intrapresa. Proprio come un corridore sulla linea di partenza di una pista di atletica il quale, sentito lo sparo dello starter, invece di partire, apre placidamente e lentamente una sedia a sdraio, si accomoda, prende il telecomando e comincia a fare zapping.
Costoro, contrariamente a quanto si potrebbe superficialmente obiettare, non rappresentano solo perché frequentatori di uno psicologo fasce svantaggiate o sociologicamente differenziate. No, sono oramai una parte consistente della popolazione, più di due milioni (guarda i dati Istat), definiti “Neet” o “Generazione né-né” (Not (engaged) in Education, Employment or Training), cioè che non studiano, non lavorano e non sembrano granché interessati a fare nulla.
Lungi da me l’idea di schiacciare questo fenomeno biblico in categorie onnicomprensive e quindi semplicistiche di tipo psicologico-psicoanalitico, sociologiche o di altro genere. Troppe variabili vi intervengono, e la tentazione da parte degli addetti ai lavori di derubricare questi nostri contemporanei nell’alveo delle psicopatologie dipendenti-affettive o depressivo-ansiose o ad etiologia familiare o restringere il tutto al mammismo italiota, è talmente forte da realizzare un effetto di vero e proprio accecamento riduttivistico. Mi limito perciò semplicemente a riportare le mie osservazioni parziali anche per domandarmi umilmente se sia più utile per costoro un lavoro psicoterapeutico o piuttosto un agenzia di lavoro con tutoring (o la combinazione di entrambe le cose) o invece un altro genere di rivoluzione.
Intanto, se volessi provare a tracciare con poche pennellate – necessariamente superficiali vista la limitatezza del mio campione e la settorialità del mio sguardo – alcune caratteristiche salienti e ricorrenti dei Neet che attraversano la soglia del mio studio direi che:
–1. spesso non mostrano disagio consapevole e diretto per la loro condizione di mancanza di autonomia e di progettualità esistenziale (e naturalmente non connettono i loro sintomi psicogeni con questa condizione più generale che proprio in virtù di tale scotoma tendono a non arretrare)
–2. spesso vivono in famiglie che, ugualmente, non avvertono disagio per l’immobilità del loro membro o, se l’avvertono, appaiono sguarnite o inefficaci nell’affrontare il problema
–3. le condizioni economiche familiari non sembrano influire più di tanto sul problema di fondo, se non, in caso di insufficienza economica, accentuando gli aspetti depressivi secondari (cioè la povertà non appare un deterrente alla dipendenza, né viceversa uno stimolo alla progettualità e emancipazione)
–4. spesso la componente affettiva mima fedelmente la dinamica generale posizionandosi su un funzionamento dipendente e a volte controdipendente
–5. spesso la socialità di queste persone appare ristretta ed immobile, la loro rete di relazioni chiusa e autoreferenziale a volte dominata dalle relazioni familiari e pochissimi “legami deboli”
–6. gli ambiti di interessi dichiarati e coltivati sono ristretti e a volte prossimi allo zero, elemento questo che farebbe (erroneamente) pensare ad un deficit di soggettualità o a una situazione culturale carenziale. Cosa che in genere viene smentita subito dopo l’inizio di un lavoro psicoterapeutico.
In generale si potrebbe affermare da queste prime sommarie osservazioni che i Neet esprimono un bisogno inderogabile di restringimento dell’esploratività proprio laddove il mondo là fuori chiede a qualcuno che sta diventando adulto (che è poi l’etimo della parola adolescente) di sgomitare e di farsi largo dentro una crisi di sistema che non accenna a terminare e che viceversa impone l’attivarsi di strategie di ambientamento/disambientamento sempre nuove.
Un tale bisogno così espresso può essere inteso come disadattamento, difficoltà, disagio e in alcuni casi (in cui ad esempio sintomi psicogeni vanno a suggellare lo stigma sociale) disinteresse e vulnerabilità individuale e familiare s’incrociano e finisce per diventarlo. Ma da qui a pensare che lo sciopero bianco che viene messo in opera da più di due milioni di giovani sia solo un problema di adattamento o di psicopatologia ce ne passa e sarebbe totalmente fuorviante pensarlo.
Il bisogno di restringimento delle territorialità psichiche è dal mio punto di vista soprattutto un dato antropologico e mostra piuttosto uno scollamento tra matrici culturali (in genere famigliari) che per varie ragioni retrocedono su posizioni meno incerte e su una complessità dello stile di vita drasticamente minore e matrici culturali che propongono un continuo innalzamento della posta in gioco e un continuo gioco di discontinuità tra le generazioni, attraverso passaggi storico-sociali quali il precarismo lavorativo e tutto quanto ad esso concatenato.
Ma allo stesso modo in cui non mi accontento di leggere l’indifferenza dei Neet come un disadattamento psicologico, non mi basta assolutamente pensare che questo fenomeno sia spiegabile solo con chiavi di lettura sociologiche o politiche.
Una nota conclusiva: il lavoro psicoterapeutico focalizzato sul progetto esistenziale più che sul sintomo, nella mia esperienza, migliora (talora definitivamente) non solo il quadro clinico laddove presente, ma anche la prospettiva di vita di questi giovani. Ed in genere si tratta di un lavoro non lunghissimo.
Qualcosa vorrà dire… forse che l’istituzione curante psy (anche solo attraverso un singolo professionista) che si ponga come un sociale simbolopoietico di sostegno, coerente con il tessuto socio-antropologico del giovane o in grado di dialogare con esso, può essere in grado di aprire porte destinate a rimanere sbarrate?
Articolo pubblicato su psychiatryonline.it il 20 settembre 2013 http://www.psychiatryonline.it/node/4538