Violenza di genere come apocalisse culturale. Una chiave di lettura

Luigi D’Elia tratto da http://www.psychiatryonline.it/node/4502

Mi piace pochissimo la parola “impazzimento”, come del resto ho avversione per le parole più mediaticamente inflazionate quali raptus o l’associata depressione, e via dicendo, tutte invariabilmente utilizzate a sproposito e quasi sempre per descrivere categorie di fenomeni che sfuggono alla prevedibilità o a precedenti classificazioni o statistiche.

Nello stesso modo l’idea che ciò che con orribile neologismo è stato denominato femminicidio sia una forma di impazzimento collettivo io non lo credo affatto. Parole brutte per idee brutte, è sempre così.

Ma di cosa stiamo parlando? Parliamo del fatto che da alcuni anni a questa parte sono in sensibile aumento gli atti di violenza di genere (di uomini verso donne), dal maltrattamento, passando alla molestie, all’abuso psicologico e fisico, fino all’omicidio. Parliamo di qualcosa che definire “sintomatico” del malessere sociale appare riduttivo. Piuttosto parliamo di una rottura, di una crepa vistosa nella convivenza sociale, ossia una spiccata iscrizione di tutti questi atti nel rapporto tra i generi.

Ed allora, abolita la parola impazzimento dal nostro vocabolario, come contributo alla comprensione del fenomeno dell’aumento statisticamente significativo degli ultimi anni della violenza di genere, mi sembrano decisamente più appropriati i concetti di apocalisse culturale e di spaesamento (E. De Martino), associati all’idea di una crisi dei sistemi più ampi. Si, perché quando sono di mezzo generi e generazioni si sta toccando il tessuto connettivo stesso con il quale è plasmata una società. Siamo di fronte cioè ad una crisi che sfibra il tessuto stesso lacerandolo, ed è in genere quanto avviene nel bel mezzo di trasformazioni epocali significative sia delle grammatiche che delle sintassi sociali spesso correlate a mutazioni tecnologiche rilevanti o a cambiamenti politici globali. E dunque uno sforzo interpretativo che non colga le trasformazioni epocali degli ultimi decenni è semplicemente destinato ad essere vano.

Ed è pur vero che non siamo allenatissimi a cogliere i particolari nessi tra domini differenti, specie riguardo alle tempistiche, talora sfasate rispetto alla tentazione di leggere le causalità tra fatti epocali e fenomenologie quali quelle in oggetto, in modo lineare e diretto, ed invece in questi casi si tratta di causalità, o forse meglio dire concatenazioni, non lineari e asincrone, e quindi difficili da associare.

L’aumento della violenza di genere, ben al di qua di qualunque speculazione antropo-filosofica sulla necessità delle violenza in un ordine sociale, rappresenta innanzitutto molto più prosaicamente, secondo la prospettiva che qui provo a pennellare brevemente, un insanabile problema linguistico.

Immaginiamo ad esempio cosa accadrebbe se ad un certo punto la persona che ci sta accanto da una vita cominciasse a parlare in una lingua morta. Ma non solo a parlarvi, ma anche a pensare in una lingua morta (e scoprire magari che non ha mai parlato la nostra lingua). All’improvviso uno dei partners (in genere e non a caso un maschio), sembra vittima di un sortilegio che si concreta in una sorta di atavismo antropologico: egli pensa, parla e agisce come se fosse in un’altra epoca storica e vive con angoscia le nuove regole che questa società gli impone, specie in materia di relazioni, famiglia, affetti.

E accade così che mentre nella lingua corrente una donna dice basta è finita, voglio separarmi (eventualità resa del tutto attendibile e legittima dalle trasformazioni storiche dell’ultimo secolo circa), dal canto suo lui non parla la stessa lingua e non riceve emotivamente queste parole se non come un oltraggio inimmaginabile ed insanabile ed un’offesa umiliante della propria identità e umanità. La perdita di tutto il proprio mondo. Viene dunque oltraggiato l’ordine emotivo secondo il quale ogni cosa deve stare al proprio posto. Ed il posto di una donna è, secondo questo programma datato, accanto-sotto-dietro il proprio uomo, accolto per sempre e irreversibilmente con rassegnata e fatalistica indulgenza. Proprio come accadeva nelle società preindustriale, ed in su, nel passato. E come accade ancora oggi in molte parti del mondo non-occidentale dove anche giuridicamente il vincolo uomo donna era di tipo proprietario e scioglibile da parte femminile solo in rarissimi e gravissimi casi.

Ma vediamo come i concetti di apocalisse culturale e spaesamento possono in parte illuminare la nostra ricerca di senso di questo sortilegio-virus tutto maschile.

Ne La Fine del Mondo, libro postumo e incompiuto, De Martino distingue tra apocalissi positive e apocalissi senza salvezza.

Dice De Martino (p. 467-8):

Nella vita religiosa dell’umanità il tema della fine del mondo appare in un contesto variamente escatologico, e cioè come periodica palingenesi cosmica o come riscatto definitivo dei mali inerenti l’esistenza mondana: si pensi per esempio al Capodanno delle civiltà agricole, ai movimenti apocalittici dei popoli coloniali nel secolo XIX e XX, al piano della storia della salvezza nella tradizione giudaico-cristiana, ai molteplici millenarismi di cui è disseminata la storia religiosa dell’occidente. In contrasto con questa prospettiva escatologica, l’attuale congiuntura culturale occidentale (il libro è dei primi anni’60. Ndr) conosce il tema della fine al di fuori di qualsiasi orizzonte religioso di salvezza, e cioè come disperata catastrofe del modano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile: una catastrofe che narra con meticolosa e talora ossessiva accuratezza il disfarsi del configurato, l’estraniarsi del domestico, l’inoperabilità dell’operabile. […] il momento dell’abbandono senza compenso al vissuto del finire costituisce innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca […]”.

L’esperienza dello spaesamento consiste proprio nella rottura catastrofica di un orizzonte domestico, familiare, abitudinario, riconoscibile e prevedibile in quanto ristretto, limitato, che secondo De Martino corrisponde nelle società “altre” (sia lontane nel tempo che geograficamente) con l’esperienza di crisi che oggi chiameremmo ”evolutive”, cioè crisi legate a cambiamenti periodici dello status ordinario (cambiamenti del ciclo vitale legati alla sessualità ad esempio, o vissuti traumatici della comunità), laddove, viceversa, nelle società odierne così come nell’alterità delle esperienza psicopatologiche corrisponde con il sentimento di rottura e di caduta senza redenzione, quindi di catastrofe.

Certo l’orizzonte storico-politico in cui si colloca l’opera di De Martino è quello che si muove tra la fine dell’ultimo disastro bellico e la minaccia atomica della guerra fredda, in pieno boom economico. Oggi le nostre apocalissi culturali sono ben altre, e forse ancor più spaesanti.

Per tornare al tema della violenza di genere attuale, dunque, si tratta di mondi non comunicanti quelli che si confrontano senza speranza e senza salvezza tra i generi oggi, in un orizzonte paranoicale dove l’unica opzione possibile resta quella della cieca distruttività.

In questa crisi dei generi sono i maschi coloro che dimostrano le maggiori difficoltà ad apprendere e aggiornare i codici linguistici senza provare queste esperienze di fine del mondo di cui accenno qui. Non so dare una risposta compiuta all’interrogativo: perché soprattutto i maschi, per quanto continui a pormelo continuamente, ma certamente qui si svela una divaricazione culturale tra i generi più profonda di quanto s’era precedentemente immaginato.

Un approccio etnopsicologico-fenomenologico, declinato come cura di atavismi antropologici e tentativi di dialogo tra mondi linguistico-culturali sideralmente lontani, corrispondenti ai generi, forse gioverebbe alla causa dei numerosi centri antiviolenza esistenti sul territorio nazionale. Ma prendetela come una semplice suggestione.

Bibliografia:

Ernesto De Martino, La Fine del Mondo, Einaudi, Torino, 1977 (scarica il PDF)

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