Che fine ha fatto il piacere?

Luigi D’Elia tratto da http://www.psychiatryonline.it/node/5122

Mi è capitato di recente di far caso ad una caratteristica comune a molti, se non alla maggioranza, dei pazienti che incontro e che riguarda importanti problematicità inerenti all’area del piacere, ovverosia una sorta di arretramento qualitativo e quantitativo di esperienze piacevoli se non proprio un’inaccessibilità generalizzata alle esperienze di piacere. Una riduzione drastica e irreversibile delle piacevolezze della vita, a partire dalla sessualità, passando dal piacere del cibo, fino al semplice momento di relax solitario o condiviso per finire col sonno e il peggioramento della sua qualità.

Certo – qualcuno mi obietterà – se ci sono problemi esistenziali, psicologici o sociali come quelli che spingono qualcuno da uno psicologo è naturale che anche la sfera edonica ne risenta. Ma naturalmente considererei estremamente semplicistica un’obiezione del genere, piuttosto penso che il deficit di piacere sia un correlato di stili di vita che progressivamente e circolarmente stanno deteriorandosi per tutti noi. In realtà, a farci meglio caso, tale constatazione sarebbe da estendere a tutti e non solo alla popolazione dei cosiddetti pazienti.

A partire da questa mesta considerazione ho provato a ripescare nella mia memoria alcuni “testi sacri” della mia formazione personale che proprio di questo ci parlano ancora oggi e con estrema attualità. L’uso dei Piaceri, di M. Foucault, L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, Il Libro dei Piaceri di R. Vaneigem, L’erotismo di G. Bataille, per citare i primi che mi sovvengono. Ebbene, ripensando a queste complesse circumnavigazioni sul tema del piacere, e non solo, ho provato a immaginare cosa sia avvenuto di così catastrofico tanto da giustificare una così vistosa retrocessione del piacere sulla scena culturale e sociale, con tutte le nefaste conseguenze sul benessere psicologico degli individui, con buona pace di psicologi, psicoanalisti, psichiatri, afasici rispetto a questo problema o viceversa travolti da banalità salutistiche da rivista femminile.

Sentendo più affine a me l’analisi genealogica foucaultiana, tendo a immaginare negli ultimi decenni un movimento di ulteriore separazione dall’originaria unitarietà che il filosofo francese delinea allorquando descrive la “aphrodisia”, le opere di Aphrodite, l’esperienza del piacere, come un tutto unico, un complesso inscindibile di piacere, desiderio, attrazione, atto. Inscindibilità che con l’era cristiana si frammenta attraverso un radicale mutamento concettuale che trasforma il problema morale collegato già in antichità alla necessità di un controllo pulsionale, dall’idea di temperanza (sofrosùne e enkràteia) in epoca classica, come forma di controllo virtuoso del piacere, fino all’idea di astinenza come forma di mortificazione del corpo e ascetismo morale, in epoca cristiana. Mutazione che di fatto inaugura la separazione del piacere dal desiderio che da questo momento in poi prendono strade separate.

Separazione concettuale tra desiderio e piacere che oggi proverei a sintetizzare nelle parole di G. Deleuze. Il desiderio, dice Deleuze, è sempre una concatenazione, un insieme, senza necessariamente un oggetto concreto, non desidero una donna, sostiene il filosofo citando Proust, ma il paesaggio che quella donna mi evoca, un paesaggio che nemmeno conosco ma intuisco appena. Il desiderio è dunque un processo mentale complesso, corticale, affettivamente carico.

Il piacere appare invece come un problema più semplice, più biologicamente fondato, più legato al corpo alla sensorialità, più circoscritto, e tuttavia la nostra cultura, secondo Foucault si pone maggiormente il problema del desiderio e oscura del tutto il problema della gestione del piacere, ci riconosciamo come soggetti di desiderio e non più come agenti di piacere. Da un certo punto in poi, in epoca moderna, il piacere, che invece era centrale nella cura di sé delle nostre società antiche nonché in quelle orientali, diventa a mio parere, in qualche modo la nostra cattiva coscienza.

Giungiamo così ad oggi dove la psicoanalisi con il suo storytelling sembra cavalcare l’antica separazione avvenuta col cristianesimo collocando il desiderio come dimensione del soggetto e riconvertendo la questione del piacere alla dimensione biologico-naturale ribattezzandolo come godimento, come dimensione di un organico de-soggettualizzato.

Marisa Fiumanò sintetizza in questo intervento (Che cosa intendiamo per godimento) la posizione di Lacan a tale proposito.

[…] una volta Lacan aveva chiesto alle persone presenti ad ascoltarlo “Il corpo a che cosa serve?” e poiché nessuno aveva risposto a questa questione era stato lui stesso, Lacan, a rispondere “il corpo serve a godere” e quantomeno si ha la padronanza di questo godimento tanto più si gode, quanto più il soggetto svanisce e si lascia portare dal corpo, che conosce la strada della sua soddisfazione, tanto più questo godimento si realizza. Naturalmente questo lasciarsi portare, comporta dei rischi perché se si lascia fare questo sapere del corpo, se si segue questa inclinazione naturale del corpo, lo sbocco è l’incesto. La china verso cui rotola il godimento è una china incestuosa, che porterebbe a mettere le mani sull’oggetto perduto cui assegniamo il nome “madre”, ma che è una china che ha un versante mortifero, perché è contraria alla vita che, con il desiderio, è sostenuta da una perdita. Quando si è vicini alla realizzazione di questo fantasma incestuoso, fatto che possiamo costatare nella clinica, allora la vita stessa, intesa come sorretta dal desiderio, è minacciata e il corpo rischia di funzionare senza soggetto, cioè in una situazione in deriva (nei casi di psicosi di perversione troviamo un corpo che insegue questo godimento di tipo incestuoso senza una soggettività che lo sorregga).

La dimensione del piacere in sé desoggettualizzata appare in questa descrizione e declinazione psicoanalitica come intrinsecamente minacciosa e destinata alla perdizione e alla perversione. Dove c’è il piacere-godimento, scompare il soggetto.

Personalmente trovo questa posizione oltre che errata, molto simile a quella del primo cristianesimo, con la sua dietetica morale pastorale, quindi molto distante dal presente, e condivido molto, invece, la posizione di Deleuze e Guattari qui espressa icasticamente e ironicamente da Deleuze stesso allorquando parla della distanza della sua filosofia dalle radici teoriche della psicoanalisi .

Ma questo vecchio dibattito che appare, nel suo bizantinismo, agli occhi di molti, così lontano dai problemi reali di quei pazienti di cui dicevo all’inizio, in realtà cela in sé delle questioni ancora attuali. Ma come e quali? Provo a fare una sintesi.

Da quanto emerge da questa breve e lacunosa ricostruzione, la nostra storia, ci conduce sempre più a culturalizzare l’esperienza del piacere e a declinarlo come operazione di una coscienza desiderante. In questa scissione s’insinua a mio parere l’elemento manipolatorio che è tipico delle nostre attuali(ssime) sovrastrutture socio-culturali.

Le macchine desideranti descritte nell’Anti-Edipo con il loro progetto rivoluzionario scritto nell’inconscio, oggi sono state del tutto espropriate se non colonizzate e rappresentano, in una totale torsione di 180 gradi rispetto al progetto utopistico di 40 anni fa, l’obiettivo di stili di vita che nella realtà dei fatti ci allontanano sempre più dal corpo, dalla sensorialità, dalle esperienze tipiche del pre-conscio, del rilassamento, della pace, ipnagogiche, e sono state investite viceversa di attese sempre più astratte sempre più simili alle coordinate di una campagna pubblicitaria dove il brand è diventato il contenuto culturale da abitare e dal quale essere abitati. Il desiderio in altre parole si è allontanato troppo dalla propria radice e ne ha negato i bisogni specifici a scapito di falsi bisogni indotti.

Non ci possiamo accorgere facilmente della assoluta penuria di cibo/ossigeno psichico nella quale ci troviamo, né riusciamo immediatamente a collegare il malessere psichico con tale penuria in quanto tutto, sul piano del desiderio (che è ciò a cui tendiamo spontaneamente lo sguardo), sembra viceversa assolutamente a portata di mano, comodo e rassicurante.

È molto difficile che un paziente, specie all’inizio del suo lavoro su di sé, abbia ben presente la propria penuria e ci dica che gli manca il contatto fisico, le carezze, le coccole, il piacere sessuale, il tempo per fantasticare e non far nulla, il sonno profondo e riposante, l’amicizia affettuosa e l’intimità fisica e psicologica con altri. No, piuttosto penserà alla sua dimensione del desiderio come inadeguata o inaccessibile o sfortunata o frustrata. E forse solo in un secondo momento potrà accogliere i propri bisogni primari e corporali come altrettanto importanti e dignitosi.

E del resto, anche il tentativo di recupero della sensualità perduta finisce per essere a sua volta iscritto nelle logiche del brand di successo e dell’esperienza ottimale di fatto anch’essa scissa da un contatto con un corpo autenticamente ritrovato. Tutto è mediato dal desiderio, anche l’esperienza del corpo.

L’enfasi sul desiderio sottrae dignità al piacere e ne oscura la centralità nella nostra vita e ci accompagna verso una fenomenologia dispercettiva. 

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