Il consumismo fa male alla mente

“Il progresso non risponde ai bisogni, li crea” (J. F. Lyotard)

Il consumismo giunge nella storia recente come elemento cardine intorno al quale gira anche l’economia psicologica oltre a quella finanziaria esso è diventato nel tempo strumento di veridizione, di costruzione psicologica e sociale della realtà.

La mia riflessione sul consumismo non vuole essere in nessuno modo, come troppo spesso accade, il solito rimbrotto moraleggiante dei bei tempi che furono e che non sono più, bensì la notazione, sempre piuttosto attonita, di un’evidente disfunzione psichica che il consumismo produce ogni volta che esso diventa e si impone come mantra del vivere quotidiano e come aspetto identitario diffuso e profondo del nuovo tipo umano.

È difficile, infatti, raccontare il consumismo senza incappare nella lettura moralista che oggi prevale tra coloro che lo criticano. Basti pensare alla chiesa cattolica, sempre più a sinistra nella condanna del consumismo come uno dei principali mali della nostra società, ma giungono severe critiche anche dalla galassia ecologista e da altri settori sociali di ogni tradizione politica quasi mai prive di una coloritura nostalgica, antimoderna e anche moralistica. Non ho nulla contro i moralisti o gli antimoderni, credo solo che un tale approccio rischi di creare inutili polarizzazioni e di indebolire la forza di un’idea o di una critica e ne riduca il suo potenziale trasformativo. Proverò quindi a sfuggire, per quanto mi è possibile, da questa strettoia.

Volendo tracciare una storia in pillole del consumismo elencherò una serie di punti associati ad alcune date, scelte arbitrariamente nel mio archivio mentale, che segnano un altrettanto arbitrario e pretestuoso percorso che però spero risulti sufficientemente descrittivo di ciò che intendo illustrare.
 

  • 1836 John Stuart Mill cita per la prima volta l’homo oeconomicus. Con questa definizione si vuole caratterizzare l’uomo nuovo emergente dalla rivoluzione industriale, capace di perseguire i propri interessi diventando “partner dello scambio” economico nel modo più razionale, pianificato, previsionale possibile, massimizzando il proprio tornaconto personale.
  • 1925 Primo accordo segreto a Genova tra le aziende costruttrici di lampadine sull’obsolescenza programmata dei loro prodotti. Le principali aziende del settore decidono di ridurre la consistenza del filamento di tungsteno poiché la tecnologia dell’epoca già consentiva la costruzione di lampadine praticamente eterne. Da allora in poi questa prassi che consente il ricambio rapido e lo smaltimento delle merci sarà comunemente applicata in ogni settore della produzione industriale. L’obsolescenza programmata diventa da qui in poi dei cardini della nostra civiltà, una delle pietre angolari della nostra vita che poi è diventata una vera e propria forma mentis del tutto interiorizzata, un meccanismo economico-industriale che riempie immediatamente le nostre più comuni abitudini di vita. Serge Latouche parla di tre meccanismi cardine della società dei consumi: la pubblicità, il credito e l’obsolescenza programmata, diremmo tre colonne che a loro volta si basano sul senso interiorizzato e cronicizzato dell’insoddisfazione – anche essa – programmata, cifra esistenziale che di fatto da un secolo (e in particolare gli ultimi decenni) caratterizza l’animo umano.
  • 1928 Viene pubblicato il libro simbolo del primo spin doctor della storia, Edward Bernays (nipote americano di Freud), “Propaganda”, nel quale si sostiene che “una manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse, svolge un ruolo importante in una società democratica”. L’anno dopo viene eletto in USA Herbert Hoover “fu il primo presidente ad articolare l’idea che il consumismo avrebbe dovuto diventare il motore della vita americana. Dopo la sua elezione disse a un gruppo di pubblicitari e addetti alle pubbliche relazioni: ‘Voi avete accettato il compito di creare i desideri delle persone, e di trasformale in macchine della felicità che si muovono continuamente, macchine che sono diventate la chiave del progresso economico’. Quello che cominciava ad emergere negli anni venti era una nuova idea sul come gestire una democrazia di massa centrata sul ‘Sé consumatore’, che non solo faceva funzionare l’economia, ma era anche felice e docile, e così aiutava a costruire una società stabile”. (http://it.wikipedia.org/wiki/Edward_Bernays). I libri di Bernays ispireranno direttamente il ministro della propaganda tedesco Goebbels che si riterrà un suo fedele allievo
  • 1945 Termina la seconda guerra mondiale che vincono gli angloamericani. La seconda guerra mondiale la vince l’efficienza del sistema produttivo capitalistico angloamericano contro un sistema economico ugualmente capitalista, ma centralista, burocratico e solo nominalmente anticapitalista. Anche la guerra fredda ha lo stesso esito, 44 anni dopo, seppure la supremazia in questo caso non fu giocata a suon di armi. Vince dunque il sistema di produzione più efficiente, e con esso si afferma il way of life La ripetuta vittoria della macchina produttiva del capitalismo e dell’ideologia liberale assume dunque una valenza salvifica per l’umanità che libera dall’oppressione dei totalitarismi del 900. Ma dopo la seconda guerra mondiale ci si rende presto conto che tale potenza produttiva necessitava da lì a poco di un nuovo ordine mondiale e di un approccio al consumo nuovo e più spregiudicato, tale da consentire alla macchina capitalistica di rinnovarsi e crescere, e con essa i valori e gli stili di vita da essa portati, in essa inclusi.
  • 1955 Esce sulla rivista  Journal of Retailing l’articolo The Real Meaning of Consumer Demand dell’economista Victor Lebow. Srive Lebow (traduzione mia) “La nostra economia enormemente produttiva richiede che facciamo del consumo il nostro stile di vita, che convertiamo l’acquisto e l’uso di merci in rituali, che cerchiamo la nostra soddisfazione spirituale, le nostre soddisfazioni egoiche, nei consumi. È il momento di cercare la misura del nostro stato sociale, dell’accettazione sociale, del prestigio, nei nostri modelli di consumo, il senso e il significato della nostra vita espresso in termini di consumo. Più grandi sono le pressioni sull’individuo a conformarsi alle norme di sicurezza e accettazione sociali, tanto più egli tende ad esprimere le sue aspirazioni e la sua individualità in termini di ciò che indossa, guida, mangia, la sua casa, la sua macchina, il suo modo di nutrirsi, il suo hobby. Questi prodotti e servizi devono essere offerti ai consumatori con particolare urgenza. Non abbiamo bisogno solo di un consumo a “tappe forzate”, ma di un consumo costoso. Abbiamo bisogno di merci usate, bruciate, sostituite, e scartate a un ritmo sempre crescente. Abbiamo bisogno che le gente mangi, beva, vesta, guidi, viva, in modo sempre più complicato e, quindi, che renda i consumi costantemente più costosi”.
  • 1965 esce su Economic Journal, l’articolo A Theory of allocation of Time dell’economista della scuola di Chicago Gary Becker (poi premio Nobel). Ripeto volutamente questa citazione già fatta nel paragrafo precedente in quanto centrale nel mio discorso: “il consumatore, nella misura in cui consuma, è un produttore. E che cosa produce? Produce, molto semplicemente, la propria soddisfazione. Si deve pertanto considerare il consumo come un’attività d’impresa attraverso cui l’individuo, a partire dal capitale di cui dispone, produrrà qualcosa che sarà la propria soddisfazione”.

Da quanto si può evincere da questa schematica ricostruzione, i prerequisiti ideologici e organizzativi dell’ideologia consumistica affondano le loro radici fin dagli inizi dello scorso secolo e filosoficamente anche nel secolo precedente. Non solo, anche le critiche più compiute e mature della cultura consumista sono state già svolte tra gli anni ’60 e ’70 (ricordiamo in Italia Pasolini come il principale critico del consumismo). Tutto, insomma, sembra essere già stato previsto.

Questo itinerario si ferma però volutamente alle soglie degli anni ’80, anni che notoriamente inaugurano l’esplosione del consumismo e la sua applicazione ottimizzata attraverso nuovi e più efficienti e pervasivi sistemi di diffusione globalizzata e di raffinamento di strategie comunicative. Nasce il capitalismo finanziario sempre più slegato dall’economia reale, si afferma in politica (Reagan e Thatcher) una forma di liberismo ancora più spregiudicato e cinico (ricordiamo su tutto l’icastica ed esplicativa frase della Thatcher “La società non esiste, esistono solo gli individui”), s’intensifica l’utilizzo dei media pubblicitari e televisivi e, dagli anni ’90-2000 in poi, specie con la rivoluzione del web e dei social network, si diffonde capillarmente internet che renderà ancora più interiorizzata l’espansione delle informazioni e di conseguenza anche della cultura consumista. L’epoca tardo-capitalistica fondata sull’identità consumista è quella che tutt’oggi stiamo vivendo in una nuova fase espansiva ancora più euforica rispetto agli anni ’20 e poi agli anni ’50-’60.

Il processo psico-sociale che da Adam Smith e Stuart Mill giunge ai giorni nostri è un processo graduale e inesorabile di interiorizzazione del codice sorgente sociale. Detto in altri termini, i prerequisiti ideologici qui descritti sono diventati i materiali psichici con i quali ognuno di noi vive, pensa, desidera, agisce, lo strumentario elementare con il quale costruire la propria visione del mondo. Un processo di tipo identitario, inteso nel modo più strutturale possibile.

Difficile cioè oggi eludere intimamente i nessi profondi che legano l’attuale stare al mondo con i bisogni costitutivi dell’economia e le sue regole generali. Sarebbe come pretendere di non respirare l’aria che ci circonda. Oggi assistiamo alla chiusura del cerchio tra regole generali e regole intime soggettive, quindi ad un autocontrollo ottimizzato.

Senza cogliere questo compiuto passaggio introiettivo ed identitario che rappresenta la vera novità degli ultimi decenni e che è testimoniato dalla lunga incubazione ideologica qui descritta è impossibile comprendere tutto il resto.

La rapidità (in termini di processi antropologico-sociali) con la quale la nuova identità consumistica s’è affermata nel mondo occidentale è davvero sorprendente. L’identità consumistica sembra affermarsi con una forza autonoma inedita nelle auto-rappresentazioni di se stessi. Difficile oggi autorappresentarsi ancora come cittadini, termine usato durante la rivoluzione francese, ma che qui uso nell’accezione di appartenente ad una polis, cioè ad una comunità organizzata intorno ad una storia comune e a comuni sentimenti. Non rimane che autorappresentarsi come consumatori: è questo che sostanzialmente il sociale si aspetta da un individuo, cosa ancor più triste, ciò che egli si aspetta da se stesso: appartenere alla comunità planetaria dei consumatori, al mondo-mercato, è questo ciò che indica la via verso la felicità e una vita migliore.

Il riconoscersi in un sistema politico, ideologico, teologico, in un ideale di società civile, oppure in modo più particolare in una famiglia, tribù, comunità, contrada, nazione, gruppo di amici, partito, associazione, club, tutto ciò appare bruscamente eclissato dall’identità consumista, la vera novità della recente storia umana. E dunque non più sudditi devoti di sovrani divinizzati a capo di città-stato ispirate e protette anch’esse da dèi; non più umili servi di Dio iscritti in un progetto cosmico; non più cittadini di repubbliche utopistiche, di civitae e società ordinate, democratiche e giuste; non più difensori degli inalienabili diritti dell’uomo e dei valori universali, ma semplicemente consumatori: è questo ciò che ci rimane.

Nel suo saggio edito in Italia col titolo: Consumati: da cittadini a clienti, Einaudi, 2010 (titolo originale ancora più esplicito: Consumed: How Markets Corrupt Children, Infantilize Adults, and Swallow Citizens Whole), Benjamin Barber delinea, all’interno di una cornice storica, le significative trasformazioni di alcune caratteristiche umane a seguito dell’adattamento allo stile di vita dell’attuale fase del capitalismo che egli chiama appunto capitalismo consumista. Mentre nelle precedenti fasi del capitalismo, esso era ancora, secondo Barber, un sistema teso a rispondere ai bisogni reali della popolazione, con certi precisi valori di riferimento (chi non ricorda, ad esempio, il film Mary Poppins e la splendida parodia del banchiere inglese totalmente incastonato nei valori ascetici calvinisti di risparmio e sacrificio), oggi invece accade che s’è reso necessario plasmare le persone per il funzionamento della macchina economica. Sono le persone, il loro sistema di valori, i loro comportamenti, le loro abitudini, i loro pensieri a doversi modellare completamente alle esigenze del mercato, cosa che è avvenuta, aggiungo, incontrando ben poche resistenze, e tale docilità è a mio parere il frutto della società di massa ottimizzata e tecnologizzata degli ultimi decenni.

In questo processo che è possibile definire di vera e propria modificazione identitaria, Barber individua l’infantilismo come il principale e distintivo carattere dell’uomo moderno occidentale, quello che maggiormente si conforma a far girare l’attuale economia. Infantilizzazione non significa solo una regressione infantilistica di abitudini, comportamenti, atteggiamenti e gusti di coloro che prima erano considerati adulti a tutti gli effetti, ma anche un abbassamento della soglia demografica del potere di acquisto: bambini e adolescenti che maneggiano sempre più denaro e che si fanno portatori di nuovi bisogni sempre più pressanti sui loro genitori (le catene di distribuzione di negozi e market sanno bene a quale altezza si devono collocare le merci negli scaffali per attirare l’attenzione dei bambini). Da un lato quello che fino a poco tempo fa era il mondo adulto (ci si sente adulti sempre più tardi a volte anche mai) sembra schiacciarsi su modalità infantili (impulsività, edonismo, egocentrismo, incontinenza, etc.), dall’altro i minori rappresentano i consumatori ideali, il bersaglio ideale di ogni campagna pubblicitaria. Risultato, la dinamica generazionale tende a collassare creando un miasma velenoso per il quale bambini e ragazzini sono fintamente adultizzati, nel senso che esprimono di fronte al dio regolatore mercato gli stessi diritti-doveri di un adulto, e gli adulti (o coloro che anagraficamente risulterebbero tali, ma non ci si sentono affatto) i quali invece si comportano come bambini impulsivi e capricciosi facendo di tutto pur di sentirsi idonei alle richieste del consumismo.

Per queste ragioni, aggiunge Barber, devono cambiare (e sono cambiate) le regole d’ingaggio dell’educazione e delle relazioni familiari e sociali: i “guardiani del cancello”, quelli che erano gli adulti di una volta, devono allentare e depotenziare la loro autorità e la loro funzione regolatrice (anche degli impulsi) per consentire l’allentamento dei cordoni delle borse e permettere un più facile accesso al consumo da parte di tutte le infantilità in gioco: quelle appartenenti sia agli pseudo-adulti e quelle appartenenti ai minori veri e propri che, come detto, imperversano con le loro paghette e le innumerevoli regalie ottenute.

L’autorità genitoriale e delle figure istituzionali deve perciò recedere fino a vanificarsi affinché bisogni fittizi e onnipotenti si avvicendino ad una velocità sempre maggiore. Aggiungo che, essendo un fenomeno sistemico, e dunque trasversale ed universale, non si tratta solo di un movimento generazionale, quindi verticale, ma anche di un movimento orizzontale e circolare per il quale anche l’assetto e le regole d’ingaggio tra pari hanno profondamente mutato i loro codici identificativi.

Scrive a tal proposito il blogger filosofo Mario Domina: “L’io voglio ha sostituito l’antica figura dell’io decido (succedanei del cartesiano e kantiano io penso), accompagnandolo verso una inarrestabile deresponsabilizzazione. Il messaggio che arriva al soggetto è del seguente tenore: tu limitati a consumare, che al resto ci pensiamo noi (e il problema sta anche in quel “noi”, visto che sembra si tratti sempre più di forze impersonali – quasi un super-io imperscrutabile). Naturalmente l’altro lato – il lato oscuro, il risvolto della medaglia – non deve essere mostrato: (produci) – soprattutto ed imperativamente consuma – (crepa)! Produrre e crepare vengono messi tra parentesi quando non oscurati, il prima e il dopo diventano variabili fluttuanti ed inconsistenti. La causalità e la consequenzialità – tipiche dell’antico processo decisionale – poco importano, e passato e futuro si appiattiscono sull’eterno presente del consumo. Consuma qui e ora, soddisfa qui e ora, tutto quello che desideri.” (http://mariodomina.wordpress.com/2010/07/01/adolescenti-ii-lera-dellinfantilismo/ )

Ulteriore conseguenza di queste trasformazioni indotte dai bisogni dell’attuale sistema socio-economico è perciò la retrocessione di ogni funzione civica, il disimpegno sempre maggiore nelle società occidentali da ogni questione inerente il bene comune e la cosa pubblica. Un processo di deresponsabilizzazione che investe ogni società occidentale. Questo processo è accompagnato da un altro fenomeno, ben descritto da Baudrillard in molte sue opere, e cioè quello della derealizzazione indotta sia dai meccanismi dell’economia, ma anche da quelli della comunicazione mediatica.

Anche Zigmunt Bauman non ha molti dubbi: l’identità consumista è di gran lunga quella dominante, quella che delinea il carattere dell’uomo contemporaneo (almeno occidentale), il paradigma che informa maggiormente di sé i suoi stili, pensieri, emozioni e comportamenti.

Ma quali sono le caratteristiche perlopiù inedite (in relazione ad altre epoche storiche) della società dei consumatori e dei suoi membri?

L’homo consumens che si muove sugli scenari tecno-sociali del capitalismo avanzato e della società consumens sembra orientarsi su un campo piuttosto saturo di domande e risposte, un campo di necessaria alta prevedibilità, ma anche di grande deresponsabilizzazione. Egli sembra aver posto l’equivalenza tra il sentimento di libertà e quello di scelta: scelta tra le diverse offerte del mercato che coincidono con altrettanti orientamenti pseudo-esistenziali, ed in tali pseudo-opzioni egli ha disciolto e neutralizzato la propria idea di libertà. Questa equazione tuttavia si mostra presto ingannevole ed effimera in quanto costringe a seguire la medesima tendenza invocata dal mercato stesso, cioè la tendenza all’obsolescenza degli oggetti “segnicamente” carichi, obsolescenza imprescindibile per la continuità del sistema economico. Lo stile di vita che ne consegue e che trae forma è quello, continua Bauman, della continua rinascita, della riconfigurazione di sé, del disprezzo del passato, della perenne insoddisfazione, dell’illusione di un controllo onnipotente sulla propria vita.

Il bisogno di controllo assume forme, diremmo noi psicologi ansiose, anticipatorie, occorre cioè “giocare d’anticipo” sulle tendenze del mercato in quanto solo così è possibile per l’homo consumens conservare una propria continuità autobiografica ed un senso di adeguatezza. Una certa urgenza ed emergenza prendono il sopravvento, accompagnate, osserva Bauman, dalla rapidità dei cambiamenti, ma soprattutto dalla necessità di obliare il prima possibile gli oggetti precedenti divenuti sorpassati (disinvestiti), ma anche, per estensione, le situazioni relazionali, le precedenti agglomerazioni identitarie. Tutto sembra funzionare per agglomerazioni temporanee che si succedono con una rapidità ed una quantità simile alla enorme mole d’informazioni e comunicazioni dei media, anch’essa tale da doversi necessariamente e drasticamente selezionare ed obliare.

In tal fluido in cui noi tutti nuotiamo chi si ferma è perduto, è vietato cioè sfuggire alla tirannia del presente fermandosi in un’identità stabile, in stili di vita sobri, disimpegnati dalla corsa, pena l’esclusione certa da ogni processo sociale, e dunque da ogni criterio di idoneità sociale e personale.

La forma assunta dalla temporalità, come cioè viene declinato e vissuto il tempo dell’homo consumens, ci racconta del crollo della dimensione dell’attesa, della sospensione, del differimento (il tempo del pre-conscio, come direbbero gli psicoanalisti), per far posto ad una bassa tolleranza delle frustrazioni, ma anche dei conflitti che, come ci avverte Bauman, richiedono tempo e pazienza per essere affrontati. Tempo e pazienza non ce n’è più per nessuno.

Il flusso veloce del tempo corrisponde quindi al passaggio rapido degli oggetti, ma anche alla costante mobilità dei legami sociali e delle identità intercambiabili, ci si ritrova dunque a re-inventarsi dentro nuovi contenitori sociali, dentro nuovi amori, dentro nuovi stati mentali, dentro nuove rappresentazioni di sé.

Il mondo appare allora come un enorme “contenitore di parti di ricambio” dove rifornirsi di continuo per modellare e aggiustare la propria immagine, ideale, rappresentazione di sé e degli altri, per integrare il proprio bagaglio di gadgets ed umori.

Bauman sostiene che, nel processo di aggiornamento continuo delle parti da integrare e ricambiare, i sentimenti congiunti di onnipotenza e deresponsabilizzazione dettati dalla società dei consumi determinino diverse alterazioni del tessuto sociale nella direzione della disaggregazione e distruzione delle trame psicosociali e, di conseguenza, degli stati mentali degli uomini. Ci si disfa dei legami sociali e li si consuma e sostituisce, esattamente come accadrebbe con qualunque altro oggetto di consumo.

Tratto da: Luigi D’Elia  Alienazioni Compiacenti, star bene fa male alla società, 2015

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