Il suicidio grandioso degli stragisti. Universi e universalismi che collidono.

Pubblicato in “La vita ai tempi del terrorismo Psicologia e fiducia per gestire la paura e fronteggiare il Male” a cura di Luciano Peirone. Ordine Psicologi Piemonte, 2017

Luigi D’Elia

Il terrorismo ISIS colpisce il cuore dell’Europa

8 Gennaio 2015, alcuni cittadini francesi, nati in Francia, Said e Chérif Kouachi, 32 e 34 anni, due fratelli orfani di origine algerina e Amedy Coulibaly, 32 anni, di famiglia senegalese, compiono alcune azioni terroristiche che aggrediscono simboli e valori dell’occidente, i primi due sterminano la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo che in passato aveva sbeffeggiato tutte le religioni compreso l’Islam, il terzo prima uccide una poliziotta, poi sequestra e uccide altre 4 persone all’interno di un supermarket kosher.

13 Novembre 2015, stessa scena, ma strage ancora più grande e efferata, 130 vittime tra i locali del centro e lo storico locale parigino Bataclan durante un concerto rock, da parte di due commandos armati, in tutto 8 terroristi. Sempre giovani, sei uomini e due donne, quasi tutti francesi, qualche belga, di seconda generazione, solo un rifugiato, quindi quasi tutti europei di nascita e non di cultura.

I nostri stili di vita risultano intollerabili.

L’obiettivo è chiaro: colpire i capisaldi della libertà di pensiero ed espressione e della convivenza pacifica e della tolleranza sui quali, tra gli altri, si fondano i principi della nostra civiltà. Colpire questa civiltà è il messaggio forte che ci giunge. Inquieta che a eseguire tali atti siano stati dei trentenni di seconda generazione, quasi tutti nati e cresciuti in Francia e Belgio, certo, con passati criminali, ma del tutto organici al nostro mondo e ai nostri stili di vita, convertiti nel giro di pochi mesi o anni ad una visione del mondo che li ha spinti a immolarsi in un’orgia di sangue.

Come si è potuta costruire questa follia?

Cambiamo per un momento scena. Andiamo su qualcosa di apparentemente lontano, e cioè il libro di uno psicologo studioso delle religioni “Grandi Dei” di Ara Norenzayan dell’University of British Columbia in Canada (rimando alla lettura o a questa recensione per una riflessione più ampia su questo testo), traggo da esso e condivido l’idea che le religioni abbiano assolto nella storia dell’uomo a fondamentaliscopi pro-sociali rispondendo, dall’antichità in poi, a esigenze multiple sia di controllo sociale che di riferimento identitario per comunità che diventavano numericamente sempre più vaste e complesse nelle quali i legami di sangue e la conoscenza diretta non erano più sufficienti a definire le appartenenze, i legami, i valori comuni, ma si rendeva necessario il riferimento a valori comuni ultraterreni, soprattutto attraverso la statalizzazione delle religioni come accaduto con Costantino e poi con l’Islam successivamente.

Detto in altri termini ed usando una metafora informatica, le religioni sono state i “software” con i quali le società del passato hanno fatto girare i sistemi operativi sociali, hanno dato struttura, identità, appartenenza e contenuti a civiltà fino alle porte della modernità. Dei software che fino a ieri hanno costruito la pro-socialità della nostra specie.

Nella nostra epoca secolarizzata, dopo illuminismo, rivoluzione industriale, modernità e tardo modernità, subentra un nuovo “software”, che chiamiamo per brevità “liberismo”, poi “neoliberismo” cioè globalizzazione, perfezionato lungo l’arco di un paio di secoli, svincolato da spiegazioni metafisiche e calato nella realtà economico-politica di popoli e nazioni. Nel bene e nel male, questo nuovo software, specie dopo il crollo del muro di Berlino, nell’1989, è l’unico che ha caratteristiche di universalismo. Si propone inoltre (e purtroppo) come l’unico mondo possibile, insostituibile, immodificabile.

Le grandi religioni non assolvono dunque più agli scopi identitari, almeno non più nello stesso modo rispetto al passato, e le mire evangelizzatrici ed universalistiche delle religioni monoteiste, tendenti cioè a convertire tutto il mondo al proprio credo ritenuto l’unico vero, si ridimensionano. Subentra con fatica e lentezza (e non certo in tutto il mondo) l’idea della convivenza e tolleranza tra religioni diverse e del loro localismo e legame con le tradizioni regionali. Tra le tre religioni monoteistiche l’Islam sembra quello che però conserva più delle altre la vocazione all’universalismo e alla conversione.

Ed ecco che la vicenda della violenza inaudita di quei cittadini francesi assume, in questa chiave, significati differenti, che possiamo definire disidentitari: un’ossessione disidentitaria che si contrappone alla disidentità della nostra epoca.

La lotta tra universalismi

Universalismo economico-politico e universalismo religioso si ritrovano su questa scena in un corto circuito conflittuale che ha caratteristiche di novità e che preoccupa non poco, specie se si immagina l’estensione del fenomeno.

Infatti, questi trentenni francesi hanno assunto la contrapposizione di universalismi fino a pensare al sacrificio estremo. Hanno cioè inteso l’universalismo dell’Islam fondamentalista come mondo di valori alternativo a quello della società in cui sono nati e vissuti. Un tentativo di negare un campo di codici semantici, di cui la libertà di espressione e di sberleffo, la musica rock, i locali serali e il relativismo culturale sono semplici corollari, per affermarne un altro molto più arcaico e semplificato ma con le stesse caratteristiche universalistiche.

Certo, non stiamo parlando di bonzi che si danno fuoco o di martiri della fede che si immolano, né di asceti orientali che si sentono assediati da valori alieni, ma di criminali, non più ragazzini, che hanno un disprezzo della vita estremo maturato nella periferia più degradata del primo mondo. Dobbiamo quindi presumibilmente immaginare che il disagio psichico e sociale di queste persone abbia reso particolarmente permeabile e manipolabile le loro menti e le abbia consegnate di fatto ad una dinamica di fanatismo e di  polarizzazione paranoicale piuttosto importante.

Ma proprio a partire da questa polarizzazione paranoicale, siamo proprio sicuri che la scena della conflagrazione tra civiltà e universalismi sia quella che sta effettivamente avvenendo sotto i nostri occhi o viceversa dobbiamo smarcarci da questa semplificazione e immaginare invece, come in fondo ci suggerisce S. Zizek, filosofo e psicoanalista sloveno, che il conflitto tra civiltà, cioè tra occidente e fondamentalismo, sia un “falso conflitto”, “un circolo vizioso di due poli che si generano e si implicano a vicenda”, un conflitto cioè nato e cresciuto per inscenare una dialettica in realtà apparente e assente in quanto già morta da secoli, e cioè tra universalismo religioso e universalismo economico?

Un conflitto cioè che propone a tutti noi l’apparenza di scegliere tra un mondo immodificabile, cioè il nostro, ed un mondo medievale (che è in realtà solo la periferia del primo). Un fenomeno di incorniciamento nel quale tertium non datur e dove menti deboli e feroci ci distraggono dalla possibilità di ricercare nuovi valori alternativi ad entrambi.

Un’altra scena vicina e distante: i suicidi grandiosi

Ciò che sta avvenendo nel mondo in queste ultime settimane (Luglio 2016), con i ragazzi islamici o di origine extraeuropea che compiono stragi, è un fenomeno che, diversamente da quello degli arruolati ufficiali dell’ISIS, presenta alcuni aspetti di novità ed altri no. Cominciamo con i secondi.

Non è una novità, come detto, che esista nel mondo islamico una deriva terroristica incarnata da organizzazioni internazionali e al momento persino anche da uno stato chiamato ISIS

Non è una novità che esistano psicopatologie da shock culturale o più volgarmente dette da adattamento che sono il risultato dell’incontro, quasi sempre traumatico, tra civiltà diverse e lontane

Non è una novità che esistano psicopatologie dell’area psicotica, paranoidea, dell’area antisociale, dell’area dei disturbi della personalità distribuite in ogni angolo del mondo

Non è una novità che le fenomenologie psichiatriche siano nutrite dai materiali che ciascuna cultura e ciascuna epoca forniscono loro di volta in volta, talora (raramente) incarnando l’idea di male assoluto e allo stesso tempo di grandezza: sentirsi Napoleone, sentire i microchip nella testa, sentirsi indemoniati, sentirsi stragisti dell’ISIS.

Invece ciò che è qualitativamente nuovo è che tutti questi fenomeni facciano per così dire “cortocircuito” producendo qualcosa che, in termini di aggregazione degli stessi fenomeni e di velocità con cui avviene tale cortocircuito, non conosce, almeno secondo le mie conoscenze, precedenti.

Nell’arco di pochi giorni nel cuore dell’Europa (con il precedente di Orlando negli USA di poche settimane fa), tre ragazzi, 17, 18, 31 anni, di cui due adolescenti, il diciassettenne nato in Afghanistan, il diciottenne nato in Germania di madre iraniana e padre tedesco, e poi il trentunenne nato in Tunisia e trapiantato in Francia, decidono di porre fine alla loro vita in maniera plateale e grandiosa, incarnando ciò che l’attuale mainstream informativo declina ormai come il male assoluto, l’oggetto principe del panico collettivo: lo stragismo di matrice islamica. Il tutto nel mentre in altre parti del mondo le stragi islamiste, quelle vere, con i martiri che si fanno esplodere nella folla, proseguono indisturbate mietendo decine e centinaia di morti e feriti, saldandosi in un unico paradigma comunicativo inequivocabile: guerra, distruzione, morte.

Si genera però una grande confusione: la matrice islamica in questi ultimi casi europei non è dimostrata (nei casi dei due più giovani) o è debolissima e tirata per i capelli (nel caso del tunisino di Nizza le indagini sono ancora in corso), per cui tale matrice la si può rintracciare solo nelle origini famigliari e culturali degli stragisti. Invece ciò che appare evidente è che tutti questi nuovi stragisti siano evidentemente delle persone con importanti problematiche psichiatriche precedenti e che compiano (o tentino di compiere come per il diciasettenne) stragi che rimandano più a quelle degli omologhi ragazzi occidentali, da Columbine fino ad Utøya, nelle diverse varianti e sfumature.

E dunque, chi e cosa sono questi stragisti, semplici malati di mente che imitano Breivik, malati di mente al servizio dell’internazionale terroristica islamista, dei disadattati che si radicalizzano in men che non si dica e si vestono da stragisti islamici? Davvero una gran confusione.

Di certo i processi imitativi sembrano giocare in questo caso, forse più che in altri, un ruolo centrale e decisivo. Il ragazzo tedesco-iraniano pare che avesse nella sua camera molto materiale sullo stragismo dei ragazzi occidentali e il suo gesto forse non a caso è avvenuto proprio nel quinto anniversario della strage di Utøya. Ma affidarci all’imitazione come passepartout interpretativo e risolutore di tale complessità non sembra una buona idea. Qualcuno infatti dovrebbe spiegarci come mai gli stessi processi imitativi non si attivino così facilmente in altri momenti storici.

Un’altra chiave di accesso, forse più promettente è quella “etnopsicologica”: per tutti questi casi dove la condizione di incontro/scontro etnico appare comune denominatore, un ruolo centrale e decisivo, come già accennato, lo giocano i problemi legati allo shock culturale: tutti questi ragazzi, in un modo o nell’altro sono figli dei recenti processi di globalizzazione, di migrazione, di integrazione impossibile o difficile, di neo-colonialismo culturale, con derivazioni nei percorsi di marginalizzazione, di esclusione, di bullismo, di alienazione ed infine di disagio mentale conclamato.

Ma anche in questo caso questa chiave di lettura “etnopsy” per quanto particolarmente euristica, non appare ancora sufficientemente esaustiva per cogliere complessivamente questo nuovo fenomeno. Anche il questo caso il disadattamento culturale avrebbe dovuto produrre stragisti ben prima di questo momento storico.

Possiamo proseguire così per ognuno dei fattori che ci sembrano cause dirette o indirette e profonde di questi ultimi episodi (psicosi, imitazione, shock culturale, internazionalizzazione del terrore, etc.), e per ciascuno ci dovremmo arrendere contro l’evidenza della loro insufficienza se presi isolatamente. Occorre allora provare a contestualizzare e interpolare meglio e più profondamente i fenomeni già noti e già descritti (psicosi, imitazione, shock culturale, internazionalizzazione del terrore, etc.) con il periodo storico che viviamo.

Nel contestualizzare e interpolare i fenomeni scopriremmo quindi che le variabili veramente nuove che introducono elementi qualitativi inediti corrispondono alla rapidità con la quale oggi è diventato possibile reperire le informazioni necessarie e sufficienti per diventare un suicida grandioso. La variabile che sembra davvero nuova riguarda perciò la rapidità dei processi di elaborazione identitaria, la rapidità cioè con cui il materiale culturale riesce ad incarnarsi in individui particolarmente predisposti e a interpretare con estrema precisione le loro mire distruttive.

Assistiamo dunque all’applicazione del concetto di “radicalizzazione” non più e non già soltanto al fanatismo dei foreign fighters che fuggono in oriente a combattere o viceversa rimangono qui silenti ad attendere un’organizzazione terroristica che li recluti e li utilizzi (in tal caso la manipolazione è il risultato di un lento processo di rielaborazione culturale), ma la radicalizzazione deve potersi riferire ad ogni forma di disagio, marginalità, alienazione culturale, e quindi può investire ogni ragazzo di etnia non europea di seconda e terza generazione, talora anche trapiantato, oppure in futuro anche altre forme di disadattamento sociale anche in ragazzi di etnia europea, purché in grado di attingere con il necessario insight spettacolistico alla banca dati della distruttività messa a disposizione dai nuovi media.

Come in certi film di fantascienza dove basta un gesto, un virus, un contatto a trasformare chiunque in un solo attimo nello zombi, nel mostro, nell’agente Smith del film Matrix, il ragazzino di origini islamiche oggi (domani chiunque) con problemi di disadattamento e di disagio mentale importante, scarica la sua divisa virtuale e reale di suicida grandioso dal suo pc e la indossa con una facilità che a noi appare ancora incomprensibile. Il male assoluto adesso ha un preciso brand accessibile a tutti e rapidamente assimilabile.

Molta confusione sotto lo stesso cielo

Questi nuovi processi riguardano e interrogano esclusivamente la nostra civiltà i nostri stili di vita dal momento che questi ragazzi suicidari e stragisti sono cresciuti qui.

Mentre scriviamo si accavallano le notizie di episodi di violenza estrema in occidente come in oriente. Stragi e omicidi targati ISIS e suicidi grandiosi si mischiano e si confondono nelle notizie e nel mainstream. Il risultato è che l’immaginario collettivo e l’infosfera che ne veicola i contenuti vengono del tutto saturati dal significante “distruzione islamica”. Il risultato è che umiliazione, esilio, emarginazione, disagio personale e sociale, follia collettiva, manipolazione, psicopatia, diventano in questo calderone indistinguibili rischiando di rendere vano ogni tentativo di comprendere e intervenire.

L’apocalisse culturale di demartiniana memoria (De Martino, E.) che riguarda la fine di un mondo che cambia troppo rapidamente sotto gli occhi e che interdice l’esperienza dell’appartenere e dell’esistere riguarda allo stesso modo il martire radicalizzato come il ragazzo sofferente mentale grave, anch’egli radicalizzatosi ma ad un immaginario mostruoso e folle. Ognuno attinge al proprio immaginario distruttivo ed ognuno nel volersi portare con sé tutto il mondo in una palingenesi folle si serve di materiali eroici, giganteschi, mitologizzati: il paradiso dei martiri o il paradiso dei distruttori alla Breivik. Ognuno si sente autorizzato a uccidere in risposta all’esilio umiliante e al disambientamento senza redenzione che questo nostro monto riserva a chi non si allinea.

Bibliografia

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *