La psicoterapia è efficace e accessibile?

Qualcuno si è mai preoccupato di verificare il rapporto che intercorre tra la demografia delle diverse professioni e le problematiche sociali che dovrebbero, da queste, essere non dico risolte, ma quanto meno attutite o gestite?

Quale rapporto esiste tra il numero di avvocati e giudici e la giustizia di una nazione? Tra il numero di medici, infermieri e la domanda relativa alla salute di un paese? Tra il numero di psichiatri, psicologi e la salute mentale di un popolo? E ancora, tra il numero di giornalisti e l’informazione libera e di qualità?
 
Semmai una ricerca del genere fosse stata già svolta, o si volesse svolgere, temo proprio che infrangerebbe molte delle nostre ingenue considerazioni che, normalmente, saremmo portati a svolgere correlando domanda e offerta di un dato servizio, bisogno o emergenza sociale in una proporzione equilibrata, o quanto meno coerente con flussi corrispondenti. Tipo: maggiore giustizia, molti avvocati; maggiore salute, più medici, e così via.

No, probabilmente temo che scopriremmo qualcos’altro, e cioè che non c’è una correlazione coerente (o comunque non sempre coerente) tra demografia di una certa attività e problematica ad essa relativa nel corso del tempo. Anzi, che in certi casi il rapporto tra un’attività e la problematica ad essa connessa è inversamente proporzionale, come dimostrato dal filosofo Ivan Illich riguardo la medicina nel suo noto (per me leggendario) testo “Nemesi Medica” e perfettamente espresso nel suo concetto di iatrogenesi. Come accade in certe zone del sud Italia, dove il numero di incendi aumenta con il numero di agenti forestali o, ancora, laddove la burocrazia diviene più macchinosa in seguito all’aumento di impiegati degli enti locali.
 
E allora, come funziona la faccenda? Be’, a mio parere funziona più o meno come la nota barzelletta dell’indiano e dell’inverno freddo, freddo, freddo. Vale a dire, che il rapporto tra domanda e offerta è talora dipendente da fattori estrinseci e indiretti: niente di più facile che sia l’offerta a determinare l’aumento della domanda anche riguardo i bisogni essenziali, e non viceversa. Una sorta di escalation, sconnessa dalla realtà di quello specifico problema/bisogno, che riguarda invece bisogni altri, contigui, legati più ad equilibri e assestamenti sociali che ben poco hanno a che fare con l’oggetto di lavoro di quella data professione, anzi che a volte la riguardano in maniera inversa e paradossale (come nel caso della iatrogenesi appena citata). Bisogni altri spesso collegati, ad esempio, ad esigenze ed equilibri connessi a necessità di sopravvivenza di quella specifica popolazione professionale.

Chi si volesse divertire a dare un’occhiata ai dati, basta che si faccia un giro su questo interessante sito che compara l’incidenza delle patologie (comprese quelle mentali) in tutto il mondo per intuire che le logiche che distribuiscono qui e lì i numeri di professionisti e operatori non sono assolutamente afferrabili e congrue. Insomma, ne dovremmo dedurre che di certo, nel complesso, psichiatria e psicoterapia non hanno inciso molto, se non per niente, sullo stato della salute mentale delle popolazioni.

Ed allora quale senso conferire alle nostre professioni di cura se poi la cura si diluisce come una goccia in un oceano e le condizioni che producono o aumentano il malessere attengono essenzialmente a fattori socio-culturali e a errati stili di vita?

Appare evidente che la proliferazione di professionisti in questo settore non rappresenta in alcun modo una risposta al disagio psichico ma, casomai, ne sia piuttosto una sorta di indicatore sintomatico; quella demografia non risponde cioè, se non marginalmente, alle ragioni profonde di tale disagio, ma si limita ad affiancarsi ad esso. E in questo affiancamento esaurisce il suo scopo sociale. Ne dobbiamo ancora dedurre che l’ininfluenza di questa professione per le sorti della salute mentale è massima.
 
Identico discorso potremmo, probabilmente, fare per ogni altra professione.

Psicoterapia efficace, ma perché?

Che la psicoterapia sia un metodo efficace tanto da essere in grado di modificare significativamente il cervello è ormai cosa arcinota a clinici e ricercatori da molti anni.

Sul come e perché lo sia, la situazione si complica non poco. Basta dare uno sguardo a questa rassegna, di qualche anno fa che riporta tra le altre cose le ricerche della divisione Ricerca dell’APA, l’Associazione Americana degli Psicologi: Quando la relazione psicoterapeutica funziona. Ricerche scientifiche a prova di evidenza, (Sovera Edizioni, Roma, 2012), per capire che molto ancora c’è da fare per comprendere non certo SE la psicoterapia sia efficace, ma COME e PERCHE‘.

Nella seguente tabella l’elenco delle variabili efficaci della psicoterapia:

  1. Interazione 3%:
  2. Personalità del terapeuta 7%
  3. Tecniche specifiche 8%
  4. Relazione terapeutica 12%
  5. Contributo del cliente 30%
  6. Varianza non spiegata (Fattori extraterapeutici) 40%

Quindi sul 70% dell’efficacia c’è ancora da capire tanto…

 Ricapitolando a grandi linee (e semplificando molto):
1.  i modelli sono innumerevoli,
2. sembrerebbero tutti sostanzialmente equivalenti riguardo agli esiti,
3.  i fattori efficaci sono ancora in gran parte sconosciuti pur cominciando ad intravederne il complesso meccanismo ed intreccio.

La psicoterapia, dunque, nel suo complesso pur dimostrando empiricamente la propria efficacia, ancora forse non sa bene perché lo sia. Essa è una modalità di prendersi cura del disagio psichico ancora molto lontana dalla propria cifra essenziale e, nel proliferare di modelli avvenuto nel primo secolo della sua breve vita, appare come una raccolta infinita di “narrazioni curanti” piuttosto che come una cura strictu sensu; un racconto della cura e non di per sé la cura. La cura, quando avviene (ed avviene), risiede piuttosto nel fortunato incontro tra le persone e i loro variegati “dispositivi”. Dispositivi antropologicamente determinati di volta in volta dal contesto culturale di riferimento e legati a quel particolare momento storico e a quel particolare incontro. La tendenza nefasta degli addetti ai lavori ad ipostatizzare tali racconti trasformandoli in realtà oggettivabili è poi la ciliegina sulla torta. Confondere nuvole concettuali, per quanto contingentemente efficaci, con l’efficacia in sé è la particolare tracotanza di psicologi e psichiatri che, quella sì, è ben lungi dall’essere curata.

I vari racconti che hanno fatto le “n” psicoterapie diverse (450 e passa), fino ad oggi, altro non sono che un tentativo maldestro, parziale, schematico e riduttivistico di mettere nero su bianco quello strano e fortunato incontro, che sì funziona (detto alla Feyerabend), che sì è veicolato da quel particolare racconto in quel particolare momento storico-culturale, da quella particolare tecnica, da quella particolare personalità terapeutica, ma che è ben lungi da una integrazione operabile laboratoristicamente con modalità di assemblaggio postmodernista, come appare in certi recenti tentativi, pur in parte condivisibili, di questi ultimi anni.

Non è ossessivizzandosi sulle proprie tecniche e non è nemmeno concentrandosi sulla misurabilità dei propri modelli (come se un modello si potesse mai misurare) che a mio parere la psicoterapia può cogliere la propria essenza antropologica e la propria intrinseca efficacia. Bensì piuttosto provando a cogliere i piani di sovrapposizione variabili e cangianti che si realizzano tra i contesti socio-antropologici degli attori della scena, i sistemi curanti, le metodologie, la comprensione degli specifici disagi, le politiche di intervento e le possibilità di risposte resilienti dei portatori di domanda di cura, i cosiddetti pazienti.

 
Una prima, approssimativa, lettura del rapporto tra demografia professionale e risposta al bisogno sociale emerge da questa prima ricostruzione come forma di affiancamento a quel bisogno, piuttosto che come risposta esaustiva vera e propria.

I dati della salute mentale relativi alla crisi, sopra citati, ed in generale dell’assetto stesso della civiltà occidentale, ce lo confermano: l’aumento del numero di addetti ai lavori di un settore non è essenzialmente segno del miglioramento di qualità di vita che quella professione contribuisce ad aumentare, quanto piuttosto evento sintomatico che il disagio in quel dato settore della vita produce. Disagio che genera una domanda indifferenziata e confusa di cui quegli addetti ai lavori si assumono in qualche modo un ruolo di prima linea, di avanguardia potenzialmente esperta.

Ma, essendo disfunzionale l’organizzazione di vita della nostra civiltà nelle sue fondamenta, risulta che tale prima linea operi a valle per problemi che sono stati prodotti a monte, per cui si limita ad affiancarsi variabilmente a tali problemi e a ridurre, laddove possibile, il danno, se non in talune derive addirittura a produrlo o cronicizzarlo per auto-sopravvivenza.

 Ma la psicoterapia è davvero accessibilie?

Una recente ricerca sulla effectiveness svolta finalmente anche sul territorio nazionale (su ben 423 pazienti) ci racconta che:

       La possibilità di avere una risposta terapeutica alla psicoterapia, rispetto all’assenza di un trattamento di questo tipo, è del 73%. Un’altissima percentuale di tasso di risposta, se si considera che la percentuale di risposta terapeutica al trattamento nella prevenzione dell’infarto grazie all’assunzione di aspirina è del 52%, e che tale trattamento viene, per questa già molto alta percentuale di risposta, considerato irrinunciabile e salva vita;

Purtroppo però “solo una percentuale compresa tra il 10% e il 14% dei pazienti utilizza questo tipo di trattamento”

(L’efficacia si valuta con gli esiti della psicoterapia di Daniel de Wet e Marzia Fratti, in Sole 24ore Toscana Versione Pdf del supplemento al n. 3 anno XVII del 28 gen.-3 feb. 2014 www.regione.Toscana.it)

Ne deduciamo che mentre aumenta l’impoverimento generale della popolazione italiana, ci scontriamo tutti con il fallimento storico delle politiche pubbliche sulla salute psicologica: l’assenza di una vera e propria strategia economico-sanitaria sulle emergenze in ambito psicopatologico (come avviene in altri paesi europei come documentato dall’iniziativa inglese IAPT Improved Access to Psychological Therapies), e l’irraggiungibilità di fatto nella gran parte del territorio nazionale del servizio pubblico a causa delle lunghe liste di attesa.

Da qui la mobilitazione della comunità degli psicologi e psicoterapeuti libero-professionisti che tenta, forse ancora confusamente e come al solito in ordine sparso, di superare la propria crisi interna dopo la fine ingloriosa della miserevole bolla speculativa sulla formazione – di base e specialistica – alle spalle degli psicologi e la relativa crisi economica delle scuole di specializzazione in psicoterapia (ricordiamo, l’unica specializzazione privata). Crisi assolutamente prevedibile già da molti anni e che segnala ancora una volta la totale assenza di una politica e di una programmazione della demografia professionale degli psicologi in accordo tra ordini e accademie.

Mancano però proposte di modelli unificanti riguardanti le coordinate di un servizio di psicoterapia accessibile/sostenibile in ambito privato-sociale, dove il sostantivo “sostenibile” non sia soltanto una medaglietta su un prodotto in svendita, o peggio ancora opportunisticamente propagandistico, per il quale sia richiesto come al solito il volontariato sacrificale degli psicologi (cosa debbano mai ancora espiare non l’ho compreso), ma dove la sostenibilità corrisponda ad una autentica sussidiarietà tra un mondo libero-professionale e la cittadinanza.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *