L’avidità

L’avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha impostato lo slancio in avanti di tutta l’umanità.

(dal film Wall Street)

Riflettere sull’avidità oggi, inoltre, nel bel mezzo di una crisi economica mondiale (a tale causa attribuita da molti commentatori e analisti sociali), sembrerebbe un contributo “a tempo scaduto”, ma forse non è ancora troppo tardi. Se non altro può essere un contributo utile a futura memoria.

Quale sia stata la curiosa traiettoria che ha condotto questa caratteristica umana, considerata nel passato una delle peggiori bassezze umane, ad assurgere a caratteristica accettata, o almeno consueta, se non proprio a novella virtù moderna, è impossibile da ricostruire nel dettaglio in queste poche pagine. Di certo, questa mutata rappresentazione ha origini relativamente recenti se ancora nel ‘600 Moliere irrideva al suo Arpagone, e nell’800 Dickens perseguitava il suo Ebenezer Scrooge con i fantasmi. O forse proprio perché l’avidità – e la sua controvoce avarizia – stavano diventando caratteristiche umane sempre più comuni, qualcuno si prendeva la briga di prendersi beffe. Chissà…

Nella Grecia antica, l’avidità (filarguria, filarguria) era considerata, secondo Socrate, un vizio vergognoso “al pari della compagnia dei cadaveri, le cui cause sono: l’illiberalità, l’incapacità di moderare i desideri, il non accontentarsi della autarkeia, ovvero dell’autosufficienza economica, che sembra essere l’unica forma accettabile di ricchezza dettata da natura”, essa domina quando ‘si è governati da qualcuno peggiore’ e trasforma i cittadini al potere in mercenari e ladri”. Oppure incompatibile con ogni forma di moralità secondo Antistene; ed ancora madrepatria di tutti i mali secondo Diogene; o addirittura secondo Crisippo un vero e proprio morbo una deficienza conoscitiva (un giudizio distorto), che attribuisce valore morale alla ricchezza e la trasforma indebitamente in un bene (Emidio Spinelli, http://lgxserver.uniba.it/lei/sfi/bollettino/164_spinelli.htm).

In area latina la musica non cambia: “L’avidità non ama che il denaro, cosa non certo tipica dei saggi; questa forma di avidità è simile ad un veleno mortale; illanguidisce il corpo e l’animo dell’uomo; è sempre inesauribile e insaziabile, né l’abbondanza, né la penuria di mezzi riescono a placarla.” (Gaio Sallustio Crispo)

In era ed area culturale cristiana, dopo l’inequivocabile metafora del cammello e della cruna dell’ago (Marco 10, 17-25), non vi sono dubbi su come la dottrina cristiana considerasse l’avidità e gli avidi.

Posizione etica confermata successivamente nelle prime comunità cristiane:L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali e, per averlo grandemente desiderato, alcuni hanno deviato dalla fede e si son trafitti di molti dolori” (Timoteo 6:10 ) e “Ma coloro che vogliono arricchirsi cadono nella tentazione, nel laccio e in molte passioni insensate e nocive, che fanno sprofondare gli uomini nella rovina e nella distruzione.” (Timoteo 6:9 LND).

Nel medioevo, la pessima opinione sull’avidità non decresce, come dimostra la ben nota lupa dantesca (Inferno, Canto I), personificazione della cupidigia,

Nel pensiero antico, o comunque pre-moderno, dunque, la condanna morale dell’avido discendeva dalla considerazione che egli fosse qualcuno coartato (illiberalità) o deficitario (incapacità a moderarsi) o per nulla saggio e dunque portatore di giudizi distorti (oggi diremmo che l’avido è portatore di una disregolazione degli impulsi e di una loro gestione compulsiva), insomma l’avido è qualcuno che è diventato schiavo di basse passioni o di istinti, qualcuno cioè che si costringe a dirottare sciaguratamente le proprie energie spirituali sottomettendole ad un pernicioso regime di schiavitù e dunque ad una degenerazione morale. Tale degenerazione morale rendeva agli occhi degli antichi l’avido come pericolosamente antisociale, come qualcuno meritevole del massimo disprezzo in quanto, attribuendo valore a ciò che non ne aveva (la ricchezza), capovolgeva indebitamente l’orizzonte etico ed il suo piano valoriale, minacciando la distruzione dei legami sociali.

Oggi, ovviamente, troviamo tutt’altra scena sotto il nostro cielo: la ricchezza, attraversando la storia ed i suoi tortuosi percorsi, è diventata, specialmente dopo la revisione calvinista, prima una prova della provvidenza divina nella vita terrena a favore degli uomini giusti a laboriosi; e poi s’è definitivamente sdoganata come valore in sé, dal XVIII secolo in poi, nell’affermazione dell’homo oeconomicus e dei suoi principi razionali ed ordinatori dei processi sociali stessi.

A partire da questo scenario, cambia radicalmente nell’ultimo secolo ed in particolare negli ultimi decenni il rapporto dell’uomo con la tecnologia ed i suoi prodotti. Cambia il modo di produzione, gli oggetti della produzione (merci), cambiano, in sintesi, le simbologie e le rappresentazioni più profonde riguardanti il possesso degli oggetti, il loro rapporto con l’identità (individuale e collettiva), il loro significato sociale, l’immaginario su di essi.

Tutto ciò avviene in parallelo con l’istituzione di una circolarità, sempre più pervasiva, tra regole economiche (votate all’incessante ricambio e all’obsolescenza delle merci), regole culturali e regole psichiche.

Come abbiamo visto prima, Foucault parla, senza mezze misure, di un processo che definisce di veridizione, cioè di attribuzione di senso e di verità, che dal XVIII secolo in poi pone al centro della storia il mercato, le sue regole e la sua razionalità come pietre angolari della vita umana, attraverso un progressivo perfezionamento dei modelli di vita a partire dai modelli economici e politici neo-liberali.

La cultura e la società fondate sul mercato sono autodeterminate-autoreferenti, immotivate, neutrali, a-morali, esse si spiegano con niente, tranne che con il proprio dinamismo. E la dinamica generatrice di segni (e non più di significati) è diventata sommamente quella del circuito merce-consumatore, prova provata, nel suo essere perfetta e autosufficiente, dell’essenza ordinatrice moderna della libertà: la scelta. L’attributo del consumatore è la scelta e la natura cooperativa della comunità consumistica viene determinata dalla libertà della scelta.

Ma, aggiunge ancora Bauman, l’impulso al consumismo, come l’impulso alla libertà in genere, annienta la possibilità di soddisfarsi. Occorre quindi sempre più libertà di quanta se ne abbia.

Ecco allora che ciò che nella sensibilità delle società del passato risultava chiaramente una sorta di scompenso/abiezione (morale, spirituale) attribuibile al carattere avido, oggi non può esserlo più, soprattutto non può essere così facilmente e sbrigativamente giudicato e forse consolatoriamente archiviato. Anzi, giungiamo, attraverso questa parabola storica, al compimento più elevato del carattere avido, alla sua completa legittimazione, o se vogliamo alla sua piena santificazione, nell’attuale società consumistica che appare disegnata perfettamente a sua immagine e somiglianza in una progressiva sublimazione di sue proprie caratteristiche. Si potrebbe addirittura affermare che l’avidità ha dato forma alla cultura contemporanea e che la cultura ha sublimato il carattere avido rendendolo paradigma di se stessa.

Se dunque in passato l’abiezione morale dell’avidità poteva essere considerata e rintracciata a partire dalla sua intrinseca antisocialità, oggi non possiamo più porre la questione in questi termini, non ci soddisfa più e non solo un giudizio etico che in qualche modo tende a chiudere nello stesso momento in cui affronta il problema dell’avidità.

A partire da questa astensione dal giudizio sbrigativo sull’avido, dobbiamo allora fare un passo indietro e supporre che, in quanto appartenente pienamente alla nostra più comune umanità, esista una componente fisiologica dell’avidità sulla quale s’è potuta innestare un’intera cultura e le sue rappresentazioni.

Occorre allora comprendere innanzitutto la fisiologia dell’avidità, la sua componente per così dire, di base, comune a tutti (l’avido che c’è in ognuno di noi, o l’avido che ciascuno di noi è), che si colloca con ogni probabilità in meccanismi biologici di sopravvivenza individuali e di gruppo: dobbiamo cioè supporre che il carattere avido abbia una sua matrice adattativa. E da qui poter dedurre l’avidità come carattere autonomo, di deriva.

Pensiamo ad esempio – per essere più vicini a materiale storico prossimo alle nostre memorie personali e familiari – ai vistosi cambiamenti di abitudini alimentari ai quali abbiamo assistito nell’ultimo dopoguerra e ai guasti prodotti dal rapido passaggio da uno stato evidentemente carenziale ad uno connotato da sovrabbondanza, con l’aumento vertiginoso di patologie mediche e psicologiche connesse all’alimentazione.

Ci coglie a questo punto la splendida immagine comica di Totò, morto di fame, che in Miseria e Nobiltà salta assieme agli altri commensali con tutti i piedi sulla tavola inaspettatamente imbandita, mangia con le mani ogni cosa sia a sua portata e addirittura si infila gli spaghetti in tasca. Quale immagine dell’arte riesce a descrivere con maggiore sintesi l’essenza dell’avidità? Solo che quella avidità guittesca ci appare comprensibile ed anche simpatica in quanto indotta da una pregressa situazione di carenza. Parliamo, appunto, di una forma di avidità necessaria.

Ma pensiamo anche ai nostri nonni (o genitori), ancora abituati a conservare (e accumulare) ogni piccolissimo oggetto nella prospettiva di una sua potenziale utilità o un suo impiego futuro.

Questi meccanismi non si possono propriamente definire ancora come avidi in sé, quanto piuttosto come compensatori, di una forma di avidità reattiva, ancora utilitaristica e quindi non ancora autoreferenziale, come il carattere avido in sé invece rappresenta.

L’accumulo, il mettere in cascina, e se vogliamo il risparmio, rappresentano dunque il correlato adattativo dell’avidità, il suo lato chiaro, onnipresente e se vogliamo legittimo, rispondente.

Del resto, il concetto stesso di economia si fonda esattamente su quello di carenza: non esisterebbe alcuna economia, né scienza economica, in presenza di una corrispondenza esatta tra fabbisogni e risorse ed è sempre sullo scarto, o meglio, per essere ancora più precisi, sull’allocazione alternativa e ottimale da fornire alla merce rara, che si pongono le basi delle scienze economiche.

In fondo, se ci soffermiamo ad esplorare questo concetto appena espresso, vi scorgiamo immediatamente dei correlati psicologici di tutta evidenza laddove scopriamo ad esempio come certi meccanismi di rinforzo positivo (e di controllo comportamentale) trovino agio proprio a partire dalla imprevedibilità del premio (e dunque dalla sua scarsità), come accade nei diabolici meccanismi di aggancio dei videopoker, delle slot-machine, delle lotterie, dei gratta e vinci, induttori di dipendenza compulsiva.

Freud dice: “siamo così fatti da poter godere intensamente del solo contrasto, ma soltanto assai poco di uno stato di cose in quanto tale. […] Quel che ha nome felicità scaturisce dal soddisfacimento, perlopiù improvviso, di bisogni compressi e per sua natura è possibile soltanto in quanto fenomeno episodico”.

Come a dire che il piacere esiste in funzione di bisogni compressi, cioè anche qui a partire dalla scarsità di risorse e dalla conseguente insoddisfazione cronica di bisogni.

Il presupposto di scarsità sembrerebbe, dunque, orientare originariamente il campo psichico dell’avido e mobilitare le sue energie verso la ricerca sfrenata di sicurezza a scongiura di brutte sorprese. Allo stesso modo, rintracciamo in tale presupposto analoga premessa concettuale dei principi dell’economia come scienza ed in questa convergenza di presupposti, una validazione ed una coerenza dell’analisi in corso.

Possiamo supporre che l’avido agisca, in un certo senso, in maniera preventiva, che sia qualcuno che tema oltremodo di confrontarsi con il vissuto della scarsità, ma che tema al contempo anche le conseguenze positive, emotive, del piacere e della felicità connesse alla “decompressione” liberatoria legata alla risoluzione della tensione.

L’avido previene la tensione ed i suoi pericoli, evita la sorpresa, l’imprevisto, vissuti invariabilmente come esperienze negative, pericolose, disorganizzanti. Egli ha formalizzato e fissato come proprio meccanismo di piacere quello della sicurezza. Egli sembra aver sostituito il piacere della sorpresa e della catarsi liberatoria con un piacere (probabilmente meno efficace) della sicurezza legata all’accumulo.

Non mi soffermo sulle ragioni o cause di questa maturata consapevolezza dell’avido, non è tanto questo interessante, quanto piuttosto che questa posizione psicologica appare oggi ampiamente condivisa sul piano culturale. Economia politica ed economia affettiva e libidica si sono saldate in un’unica forma di economia personale divenuta sistema.

 

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