Le giovani famiglie e le loro specifiche fatiche

Nicole ha l’aria stanca, spossata, tesa. Il suo volto sarebbe dolce e gentile in altre condizioni.

Lei lo sa, dottore, che io e Massimo non ci incrociamo quasi mai? I nostri lavori non ce lo consentono. Io lavoro quasi tutti i pomeriggi e anche i week end sono a volte a lavoro; Massimo è un giornalista freelance e lavora anche la domenica e quando ha un’inchiesta per le mani sta sul pc fino a tardi e dobbiamo avere la babysitter anche quando lui è a casa. Quando io torno a volte trovo la bimba che già dorme, a volte la trovo che mi aspetta e mi rimane il tempo di stare con lei un’oretta prima di addormentarsi. Quando alle 23-23,30 vado a letto sono stravolta, mi accascio sul letto e crollo, trovo Massimo che lavora oppure sta già dormendo o se è sveglio è sempre nervoso. Non andiamo al cinema da due anni. Quando capita che miracolosamente siamo liberi dal lavoro entrambi, qualche domenica, non riusciamo a parlarci, ad incontrarci, siamo nervosi, frustrati, recriminatori l’una con l’altro, litighiamo spesso. Lui perde facilmente la pazienza, è permaloso, ha spesso scatti d’ira, mi sembra che si comporti come un altro figlio e non come un compagno. Io dal canto mio sono sempre lamentosa e accusatoria. E continuo a pensare che non ce la faccio, che ho sbagliato tutto, che non avrei dovuto sposarmi e avere una figlia, perdo troppo spesso la speranza per il futuro.

Questo frammento di seduta non è un racconto per nulla eccezionale, bensì del tutto comune, dentro e fuori la stanza dello psicoterapeuta. Anzi, Nicole, che ha 35 anni, si considera anche fortunata: ha un lavoro fisso, una casa, una figlia bellissima, molti amici. Ha anche la forza di chiedere aiuto per superare i suoi momenti critici. In fondo lei è una privilegiata, possiede ancora molte capacità umane per rispondere alle difficoltà. Non accade lo stesso per chi non ha un lavoro o ha lavoretti precari, in quel caso non ci sono né compagni, né figli, né casa, e la precarietà assume forme ancora più solide. Ma la precarietà esistenziale oggi non si ferma certo di fronte ad un posto a tempo indeterminato. È una condizione pervasiva.

La domanda che mi pongo è però la seguente: quanto ancora sono in grado di reggere le milioni di Nicole che come la mia paziente si sentono al lumicino con le forze e con la sopportazione? Quanto potranno ancora portarsi avanti con questa specifica durezza della vita fatta di isolamento, di intasamento, di frammentazione, di attacco alla relazione (per parafrasare Bion)? Credo poco.

L’incorporazione dei codici precarizzanti l’esistenza degli ultimi anni da parte delle nuove generazioni (complice la legislazione italiana sulla flessibilità del mercato del lavoro – dopo 11 anni dalla legge Biagi i risultati sono sotto gli occhi di tutti – ) attiene strettamente alla costruzione di una temporalità frammentaria e quindi alla formazione di una coscienza frammentata, ma anche di un’identità personale e sociale altrettanto frammentate. Il tipo umano che emerge in questa fase storica sembra proprio immaginato e costruito a tavolino da qualche esperto di marketing, esso non prevede la perdita di tempo a chiacchierare con figli, mariti e mogli; non prevede una suddivisione netta tra temporalità private e temporalità lavorative; non prevede ozio, socialità effimera, piacere, corpo, sensualità, intimità condivisa, lettura, riflessione, sonno, sogno. Prevede piuttosto cronica insoddisfazione e proporzionale cronica anestesia dell’angoscia.

In questo contesto, i trentenni che osino avventurarsi in progetti familiari, come Nicole, si ritrovano presto a pentirsene e a ritrovarsi con mille dubbi e mille minacce sul proprio progetto. Lo spazio di pensiero della psicoterapia può contrastare e talvolta arginare il movimento dissipativo qui descritto, ma non ci si illuda, non è una risposta sufficiente.

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