Lo stare a bottega (inquieto) dell’osservatore gruppoanalitico

Tratto da Luigi D’Elia. COIRAG, sede di Roma, Giornata di studio sul training, 20/11/2004.

L’osservazione dei fenomeni psichici pone immediatamente questioni epistemologiche piuttosto rilevanti.

Com’è facilmente intuibile, diversamente dagli oggetti soppesabili e misurabili in maniera inequivoca delle scienze naturali, non è possibile applicare gli stessi criteri di oggettività al “materiale” di osservazione relativo ai fenomeni psichici. Ogni pretesa di oggettività in questo campo è dunque destinata a fallire[1].

Parliamo piuttosto di osservazione partecipante, più legata alla tradizione antropologica e delle scienze umane, nella quale l’intreccio tra osservatore e osservato è piuttosto complicato e l’incertezza domina.

Cosa osserva l’osservatore di fenomeni psichici? Osserva i suddetti fenomeni appartenenti ad altri od osserva se stesso e le proprie emozioni-sensazioni-pensieri in relazione a ciò che va osservando? Oppure ancora sta osservando il campo di cui egli fa parte in quel momento? Ma è mai possibile essere osservatori di un campo di cui si fa parte?

F. Scotti riflette su queste cose e si domanda come me: <<In che modo l’attività mentale si rende osservabile? O come elemento disomogeneo comparso all’improvviso in una sequenza del tutto meccanica, o come elemento comune a più comportamenti (ed emozioni-pensieri, ndr) che rimanda a un progetto sotteso ad essi>> (Osservare e comprendere, a cura di F. Scotti, Quaderni di Psicoterapia Infantile, n° 46, ed. Borla, Roma, 2002).

Giungiamo così ad una prima concettualizzazione: l’osservazione degli eventi mentali prevede strutturalmente una quota d’incertezza non solo per ciò che riguarda l’impossibilità teorico-pratica di distinguere le parti in commedia, ma anche per ciò che riguarda l’immanente equivocità dell’oggetto osservato: i fenomeni mentali.

Possiamo risolvere il dilemma proponendo come oggetto dell’osservazione le relazioni, ma a questo punto rimane comunque un certo grado di aleatorietà riguardo a ciò che intendiamo per relazioni.

Ma come spesso accade nel nostro campo d’indagine, ciò che per altri è debolezza, per noi diventa forza e ricchezza, per cui l’incertezza legata alla natura singolare della nostra osservazione diviene subito materiale da includere nei procedimenti e di cui tenere conto, diventando finanche il materiale decisivo ai fini del procedimento stesso (pensate, ad esempio, alla storia del controtransfert in psicoanalisi, prima temuto, poi incluso come parte ineludibile nel processo psicoanalitico).

Partiamo dunque proprio da lì: dall’incertezza.

L’incertezza, si sa, produce inquietudine; l’inquietudine se ben tollerata produce conoscenza; la conoscenza non risolve del tutto l’incertezza, ma la placa per un attimo fino a quando questa circolarità non si ripropone, più o meno inalterata.

Tale circolarità mi pare essere il paradigma di ogni training in psicoterapia e l’addestramento di un allievo psicoterapeuta consiste proprio nella interminabile disciplina alla tolleranza dell’incertezza e dell’inquietudine.

In realtà potremmo dire, sempre con F. Scotti, che l’osservazione è essa stessa un tentativo di risposta all’inquietudine su questioni che le precedenti ricerche non sono riuscite a risolvere, dunque un dispositivo, uno stratagemma, utile a fare luce su aree cieche delle nostre pratiche e delle nostre teorie. Lo stesso autore poi ci fa intendere che, pur non essendo l’osservazione in sé una modalità di cambiamento, essa risulta indispensabile in tutti i processi di cambiamento perché li coglie e ne comprende il movimento. Potremmo portare in fondo queste considerazioni affermando che una psicoterapia priva di dispositivi di osservazione non è veramente un sistema atto al cambiamento e che una psicoterapia senza una “funzione osservante” perde la propria prerogativa diventando presto una pratica autoreferente?

Si potrebbe obiettare che la “funzione osservante” è una funzione autorappresentativa della mente stessa e che uno psicoterapeuta esperto e sufficientemente formato debba essere in grado di attivarla senza la necessità di occhi esterni, promuovendo dunque l’auto-osservazione, ma questo mi pare un fragile escamotage dialettico.

La nostra esperienza ci suggerisce piuttosto che ogni funzione auto-osservante si può attivare solamente all’interno di gruppalità, soltanto se, per un certo periodo, tale funzione non sia stata esercitata in qualche modo “fuori” di noi, se qualcuno al posto nostro non abbia già osservato noi in relazione: solo così possiamo produrre osservazioni e auto-osservazioni.

Pensiero gruppoanalitico e assetti gruppoanalitici

Dall’osservazione del bambino di kleiniana memoria, passando dagli specchi unidirezionali dei terapeuti familiari, fino alle minuziosissime rilevazioni dei moderni protocolli di ricerca che utilizzano registrazioni audio e video e che siglano questo o quello a seconda di ciò che intendono esplorare, non mi pare che le psicoterapie abbiano fin qui prodotto teorie dell’osservazione che travalichino i confini delle appartenenze modellistiche, per cui ogni teoria osservativa sembra “figlia” del modello che l’ha generata.

La gruppoanalisi non è da meno per cui ha prodotto storicamente modalità osservative che discendono dal proprio stile di pensiero e dai set che essa ha fin qui allestito.

Il modello osservativo al quale le attuali generazioni di gruppoanalisti italiani si ispirano è quello chiamato “équipe clinico-didattica” (F. Napolitani, 1980).

In estrema sintesi, si tratta di un ingegnoso e articolato quanto diabolico gioco di specchi che molti di noi hanno già percorso e dal quale hanno appreso alcuni segreti dei gruppi. Torna in questa mia definizione il concetto appena espresso in precedenza: funzioni speculari precedono quelle auto-speculari, in questo caso per quanto riguarda la formazione del terapeuta gruppale.

Almeno tre gruppalità (per contare solo quelle esplicite, ma sicuramente sono più numerose) s’incrociano sul confine del prendersi cura: il gruppo dei pazienti, quello dei terapeuti esperti, quello degli allievi in formazione.

Il primo gruppo, quello dei pazienti, immaginiamo quali domande ed inquietudini possa portare; il gruppo dei terapeuti porta l’inquietudine di gestire il doppio registro della cura e della didattica; il gruppo degli allievi porta prevalentemente una domanda formativa e l’inquietudine di sostare e definirsi in tempi lunghi in un posto scomodissimo. Non c’è un gruppo più “contento” degli altri.

Ogni sottogruppo è osservato dagli altri due; ogni sottogruppo ha il suo bel da fare nel disbrigare le proprie faccende in rapporto con gli altri due gruppi e con le emozioni che un siffatto sistema di specchi produce dentro ciascuno. Possiamo immaginare anche quanto questo dispositivo diventi presto una fabbrica di tensioni che vanno a scaricarsi sulla stessa équipe clinico-didattica (e di questo lo stesso Fabrizio Napolitani ne era già abbondantemente edotto) e di cui si prendono carico i formatori in primis e poi, sullo sfondo, l’istituzione formativa di cui fanno parte.

Perché mai allora la necessità di allestire un dispositivo così articolato? Perché complicarsi la vita che di per sé è già così difficile?

La gruppoanalisi, lo sappiamo, utilizza il gruppo, oltre che come set terapeutico, come strumento formativo perché suppone che attraverso di esso la conoscenza fluisca più efficacemente che non attraverso una trasmissione diretta ed individuale, e se vogliamo verticale, tra maestro e allievo. In questo caso l’oggetto della conoscenza coincide con l’assetto formativo: l’allievo è tenuto a praticare ed attraversare il più possibile campi gruppali e a sperimentarne dinamiche isomorfe o viceversa particolari. La petizione teorica di principio riguarda il funzionamento stesso della mente che, secondo il pensiero gruppoanalitico, si struttura e procede secondo complesse organizzazioni di campi gruppali sia sincronicamente che diacronicamente (storicamente) date. Dinamismo intergruppale come metafora della mente, dunque.

Tale apprendimento non è automatica conseguenza di frequentazioni di gruppi terapeutici e non, ma lento e faticoso apprendimento, sostanzialmente “sulla propria pelle”, di dinamismi intergruppali ed istituzionali che vengono esplorati con l’aiuto di colleghi più avvezzi[2].

Chi pretende un giorno di condurre gruppi con finalità terapeutiche dovrà aver provato, per quanto possibile e per lungo tempo, le emozioni contrastanti ed i sentimenti, a volte piacevoli, a volte di disappunto, che il dinamismo intergruppale produce dentro ciascuno, potendo un giorno riconoscere i propri assetti interni non solo come parti non neutrali della complessa articolazione di campi gruppali interagenti, ma come elementi in-formativi a valenza terapeutica. Sentirsi terapeuti assume dunque questo senso: non solo sentirsi parte di una complessità, ma come quella parte che istituisce, definisce, presiede e garantisce il campo terapeutico. Decisamente una bella responsabilità!

Come si evince da quanto detto, il compito di osservare situazioni gruppali (terapeutiche e non) non si risolve in una pratica asettica, ma in un coinvolgimento personale piuttosto significativo.

Stare a bottega sui presidi della cura

La metafora della bottega artigianale rinascimentale mi sembra quella più vicina al modello formativo del LdG: arte, mestiere e tecnica mescolati in un unico luogo di apprendimento a diretto contatto con l’opera.

Il contratto che in passato prevedeva l’affidamento di un giovane ad un mastro di bottega era piuttosto vincolante per tutti: il ragazzo era tenuto a vivere presso la casa del maestro per molti anni custodendone i segreti, stando gratuitamente a completa disposizione del maestro e rispettandone gli ordini non solo riguardo il lavoro ma anche la propria vita privata (un vero asservimento); il maestro in cambio era tenuto a mantenerlo, ospitarlo e trasmettergli il proprio sapere. Se il giovane era fortunato, trovava una comunità familiare di adozione e la possibilità di apprendere facendosi benvolere come allievo-figlio; se era sfortunato, trovava un gaglioffo che lo sfruttava e maltrattava come infimo lavorante.

Al di là delle evidenti differenze socioculturali ed economiche, che rendono improponibile un vero parallelismo, ma solo una metafora, le condizioni di apprendimento del mestiere e dell’arte (qualora l’allievo ne avesse dimostrata l’indole) della bottega erano assicurate dal prolungato apprendistato e dalla partecipazione attiva del giovane alle commissioni dell’artista/artigiano; l’apprendista partecipava alla vita comunitaria e alle sue consuetudini dividendo il pane con gli altri allievi suoi pari e con i figli naturali del maestro vivendo dunque in una fratellanza-familiarità allargata e produttiva, ed il mastro aveva nei suoi confronti obblighi morali anche superiori a quelli di un padre (C.M. Cipolla cfr M. Fini, 1985).

Con le dovute proporzioni e traslazioni storiche e per quanto possa valere ed essere utilizzata questa metafora[3], il candidato psicoterapeuta gruppale si può ritrovare a bottega in numerose situazioni[4], ognuna delle quali probabilmente richiederebbe un approccio osservativo differente ed unico. Ciò che accomuna tutte queste situazioni e le riunisce sotto la metafora dello stare a bottega è essenzialmente la possibilità di condividere con i terapeuti più esperti lo stesso identico campo osservativo, tale per cui ben poco c’è da riferire ed apprendere in maniera indiretta o astratta.

L’artigiano esperto ed il suo praticante stanno lì, occupati dall’opera, impegnati a portarla a termine, non c’è nulla da raccontare, entrambi partecipano delle stesse emozioni e pensieri, ovviamente con compiti diversi, ma comunque entrambi rivolti sull’opera, che nel nostro caso, come nel caso dell’arte, è duplice, prendersi cura ed apprendere a farlo con la massima perizia ed onestà.

Questo assetto gruppale rende l’osservazione immediatamente fruibile e trasmissibile, e per quanto vi siano differenze di prospettive tra i partecipanti sull’opera in corso, il campo osservativo ed il campo osservato convergono nello stesso territorio d’indagine.

Gruppi privati e istituzionali

Ovviamente stiamo parlando di campi osservativi che, essendo prevalentemente psicoterapeutici, sono costruiti come assetti artificiali che consentano l’emergere di particolari fenomeni. Ci riferiamo in particolare alle dinamiche del gruppo e alla dialettica individuo/gruppo, a ed w della teoresi gruppoanalitica.

Nel caso dei gruppi privati lo stare a bottega del praticante consiste nel collaborare con i/il terapeuta/i più esperto/i, attraverso la produzione di protocolli osservativi e attraverso la partecipazione ad una riflessione sull’andamento generale e particolare del gruppo e dei suoi componenti, inclusi terapeuti e apprendisti. Tutto ciò è stato, come detto, formalizzato da F. Napolitani sia riguardo la struttura che il procedimento.

Recentemente vi è stato un passaggio, direi altamente significativo e nella direzione qui indicata, verso l’inclusione del praticante all’interno del cerchio come osservatore partecipante, successivamente ad un periodo di osservazione silente. Questo passaggio, al di là delle opportune esigenze di cautela e“misurazione” reciproca, è teoricamente rilevante perché risponde a diverse esigenze formative: il periodo silente garantisce all’allievo la necessaria esperienza dell’astinenza consentendogli inoltre di concentrarsi su di sé e sulla stesura del protocollo, cosa assolutamente indispensabile e che richiede un certo periodo di apprendistato; il periodo partecipante garantisce l’attraversamento attivo, seppure protetto, delle dinamiche gruppali. Tale percorso sembra orientarsi verso una graduale assunzione di funzioni co-terapeutiche

Nel caso dei gruppi istituzionali, come quelli che si svolgono in una Comunità Terapeutica (CT), lo stare a bottega assume valenze abbastanza diverse per via dell’intervento di numerose variabili in più rispetto al gruppo privato e di cui l’osservatore-allievo deve necessariamente tener conto per poter svolgere le sue osservazioni. La CT è infatti un gruppo permanente nel quale la terapeuticità è diffusa e nel quale è difficile isolare ed individuare i fattori efficienti. Questo ha a che fare con la vita di un’organizzazione terapeutica e con la sua complessità.

Nella CT Passaggi, dove alcuni allievi LdG svolgono il loro tirocinio, il periodo di osservazione viene svolto partecipando di fatto alle attività quotidiane della comunità ed eventualmente ad alcune attività gruppali più strutturate. Il tirocinante-osservatore ha la possibilità di attraversare la complessa organizzazione di una CT vivendone i momenti più significativi: i momenti di autogestione, l’assemblea, alcune attività riabilitative, alcune attività esterne, ma anche i momenti non strutturati nei quali l’interazione con ospiti e operatori è più diretta e spontanea. L’osservatore qui familiarizza con le dinamiche istituzionali, con i climi emotivi prevalenti, con le numerose empasse e con le numerose domande che la vita di una CT pone invariabilmente a chi la frequenta.

Vi è poi la possibilità, alla stregua di ciò che avviene nei gruppi privati, in momenti differenti dedicati al gruppo dei tirocinanti, di discutere con i tutors circa le valutazioni ed eventuali difficoltà incontrate e circa le metodologie di lavoro.

Neutralità, partecipazione, convivialità

La concezione dell’osservazione che emerge da quanto detto fin qui ha ben poco a che spartire con l’idea di neutralità, significante sotteso, ed evidentemente mal riposto, di ogni azione osservativa. Anche nell’ambito dei paradigmi e delle prassi psicoterapeutiche ci sembra assistere a questo movimento concettuale: il terapeuta neutrale che utilizza virtuosamente il suo controtransfert viene gradualmente soppiantato dal terapeuta “partecipativo” che condivide, circolarmente, le sue gruppalità (i suoi sentimenti, emozioni e culture gruppali) con quelle dei suoi pazienti.

Lo stare a bottega assume dunque il senso di una definitiva scomposizione del significante neutralità: diventa una partecipazione all’opera da una maggiore e protettiva distanza, tale da consentire al candidato psicoterapeuta di lavorare su materiale osservativo senza sentire direttamente il peso della responsabilità del campo terapeutico.

Negli assetti formativi gruppoanalitici l’idea di partecipazione è ormai da tempo sedimentata: workshop, seminari, stages, osservazioni, tirocini, supervisioni e covisioni avvengono prevalentemente con questo assunto di fondo: l’esploratore di gruppalità impara immergendosi nel mare salatissimo, torbido e mosso, ma pescoso, degli intergruppi in una sorta di brainstorming creativo.

La naturale evoluzione, del significante “partecipazione”, riguardo gli assetti osservativi, formativi e terapeutici, appare dunque l’accesso ad assetti esplicitamente e radicalmente “comunitari” o conviviali. Mentre il “partecipante”può essere un iscritto, un socio, un cliente, un passante, uno spettatore, un sottoposto, un curioso, il “conviviale” può essere solo un “invitato” ed è in qualche modo “sacro” per tale motivo; convivialità inoltre richiama il significato di convivere, di condividere la medesima esistenza.

Tale passaggio si rende necessario per una serie di ragioni teorico-pratiche:

L’assetto conviviale è quello che si realizza nel momento in cui tutti i partecipanti di un incontro, qualunque sia il suo scopo, percepiscono la condivisione equa delle “risorse” a disposizione da suddividere, siano esse il pane, la conoscenza o la salute.

  1. L’assetto conviviale coincide con le più nobili tradizioni e i più antichi valori di ospitalità.
  2. Questo assetto è quello che maggiormente costituisce, secondo la mia opinione,il minore attrito alla circolazione delle idee (così come delle “merci”) ed ilminore spreco di energie mentali. Ci rendiamo conto di aver allestito un buon clima conviviale solo dopo che esso si sia realizzato e ce ne accorgiamo verificando, post hoc, la quantità e la qualità dello scambio emotivo, affettivo e di pensiero ottenuto.
  3. Possiamo provare ad individuare i caratteri salienti (i fattori efficienti) dei nostri assetti interni in posizione conviviale ricostruendo le nostre migliori esperienze di scambio in posizione di “ospiti” (in entrambi i sensi)
  4. A questo punto il discorso si allarga a dismisura, per cui mi fermo e mi aggiorno ad una successiva elaborazione.

[1] Salvo poi questionare, come accade nelle stesse scienze fisiche e naturali, anche il concetto di oggettività, già profondamente in crisi dal Principio di Heisenberg in poi nelle moderne epistemologie. La vecchia distinzione/diatriba otto-novecentesca tra materialismo e vitalismo, tra rilevazione oggettiva e soggettiva, sembra oggi superata da nuove posizioni costruzionistiche.

[2] L’immagine più fedele che mi viene in mente rispetto l’apprendimento della situazione gruppale è quella evocata dal film Stalker, del regista russo Tarkovskij, nel quale c’è una guida che conduce gli esploratori in territori (la zona) le cui continue mutazioni sono di fatto imprevedibili e in qualche modo dipendenti dalle caratteristiche degli esploratori stessi, e tuttavia percorribili “a vista” e con estrema cautela. Soprattutto facendo attenzione alle domande profonde da formulare alla zona stessa.

[3] Ricordiamo che questo modello di produzione pre-industriale è alla base del Rinascimento italiano e delle sue opere.

[4] Estraggo da un intervento “interno” di G. Lo Verso, uno dei nostri padri fondatori, un inventario di interessi del Laboratorio di Gruppoanalisi: Servizi psichiatrici, Artiterapie, Comunità terapeutiche, Psichiatria di territorio e case-famiglia, Gruppi di ogni specie e tipo, Psicoterapia analitica privata individuale, familiare e di gruppo, Tossicodipendenze e disturbi alimentari, Terapie di gruppi brevi, Gruppi di formazione, di equipe, clinici e psicosociale, Psico-oncologia, Valutazione della psicoterapia di gruppo e ricerca empirica, Psichismo mafioso, Etnopsicoanalisi e problematiche antropologiche, Clinica familiare ed adolescenziale, Insegnamento universitario e formazione alla psicoterapia, Disturbi di personalità, Metodologia e clinica dei gruppi analitici, Prendersi cura delle istituzioni di cura, Psicologia subacquea.

 

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