Perché non siamo più comunitari

Uno dei concetti-chiave del mio modo di esercitare la psicoterapia è quello di gruppalità interna o comunità interna. In sostanza è l’idea che la nostra identità in quanto esseri umani si sia formata nel tempo come un gruppo che dialoga incessantemente e che agisce costantemente, con il proprio portato storico, su ogni nostro snodo evolutivo.

Nel tempo e con l’esperienza sono giunto alla convinzione che se vogliamo incidere sulla qualità del nostro stile di vita:

  1. non c’è possibilità di modificare strutturalmente uno stile di vita senza incidere profondamente sul paradigma e sulla natura dello scambio economico tra le varie parti di un sistema

  2. non c’è possibilità di un cambiamento strutturale dello stile di vita utilizzando esclusivamente criteri individualistici e soggettivi. Cambiare stile di vita ha senso solo all’interno di un campo comunitario e in una rete, piccola o grande, di relazioni.

Oggi, partendo da questi presupposti, voglio provare a portare avanti questa riflessione ponendo al centro della mia analisi proprio l’idea e la prassi del comunitarismo.

Lo faccio a ragion veduta avendo avuto nella mia esperienza professionale alcune pratiche comunitarie, sia cliniche che politico-professionali. In estrema sintesi, in me convivono le buone pratiche della psichiatria-psicologia territoriale post-basagliana, i principi base di Rapoport, democrazia, condivisione, tolleranza, confronto con la realtà (“Community as a doctor”, 1960), una formazione su gruppi e istituzioni e soprattutto molta esperienza sul campo.

Parlo di comunitarismo, allorquando si voglia immaginare un’alternativa migliorativa all’attuale stile di vita, sia perché considero gli attuali stili di vita, per come si sono messe le cose, di fatto inemendabili, cioè impossibilitati ad autocorreggersi o autoriformarsi; sia perché la vita comunitaria appare a me e a quasi tutti gli analisti della contemporaneità esattamente come la parte mutilata della nostra natura umana, quella parte che in questa fase storica abbiamo dovuto sacrificare sull’altare di istanze, bisogni, temporalità, modalità di questo presente che viviamo.

ζῷον πολιτικόν (zoon politicòn) secondo la tradizione classica aristotelica: il noi precede evolutivamente l’io e l’individualità è una pura astrazione al di fuori di un noi, di una vita gruppale, comunitaria, introiettata. Il modo di esistere degli ultimi decenni ha fortemente penalizzato questa specifica parte della natura umana, i suoi aspetti transindividuali (G. Simondon), i suoi aspetti di gruppalità interna ed esterna (S. Foulkes, D. Napolitani), enfatizzando le caratteristiche conformistiche dell’homo oeconomicus (S. Mill) e il suo tornaconto personale utilitaristico a detrimento di ogni movimento non-utilitaristico ma teso al bene comune (A. Caillé).

D’altro canto, tutte le ricerche sulla felicità e benessere in ambito della psicologia transculturale e sociale hanno come indicatore centrale le reti sociali formali e informali come elemento chiave nella valutazione della salute psicologica dell’individuo. Interessante notare a tal proposito, nelle ultimissime rilevazioni del Istat sul benessere degli italiani, come salute psicologica e relazioni sociali siano non a caso dimensioni visibilmente decrescenti.

L’uomo comunitario si staglia dunque come utopia navigabile per il futuro, orizzonte al quale guardare e tendere per un cambiamento possibile.

Ma qualche dubbio mi assale: siamo proprio così sicuri che quando parliamo di uomo comunitario, uomo che vive nella sua comunità, che vi appartiene, stiamo dicendo o pensando la medesima cosa, o piuttosto questo riferimento al comunitarismo oscilla paurosamente tra un’immagine rarefatta e sbiadita di un passato che è ormai alle nostre spalle (e i cui risvolti negativi appaiono cancellati) e riferimenti ad un presente che somiglia molto alle riserve indiane o ad enclave culturali resistenti o marginali/emarginate? Molto facile quindi che il riferimento alla comunità sia astratto, teorico, idealistico, nostalgico e nulla sappiamo di quello che accade all’attuale uomo comunitario e tanto meno a quello futuro. Il rischio di ideologizzazione del concetto di comunitarismo e di uomo comunitario è quindi altissimo. Siamo proprio sicuri che il comunitarismo di oggi e quello di domani sia assimilabile a quello del passato oppure l’uomo comunitario di domani avrà tutt’altro aspetto?

Ci viene in aiuto il salutare e disidealizzante testo di Giovanni Barbieri, L’uomo comunitario nella società globalizzata (Giovanni Barbieri, L’uomo comunitario nella società globalizzata (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010) che ci permette di vedere i lati oscuri dell’attuale comunitarismo: il misconoscimento dell’altro, il razzismo, l’ossessione identitaria, l’endogamia, l’autoritarismo, il clientelismo. Tutti aspetti questi che possono perfettamente convivere con gli elementi positivi della vita comunitaria senza produrre imbarazzo.

E dunque, l’insegnamento che ne possiamo trarre e che non è pensabile una comunità senza il male, questo è un presupposto ineludibile, e una comunità che lo esili, lo proietti all’esterno, che voglia chiamarsi fuori, è destinata quanto meno a rimanere sulle barricate e a giocare in difesa e in retroguardia.

Provo a immaginare come sarebbe l’uomo comunitario di oggi immaginando al contempo una sperimentazione pilota a partire dalla realtà esistente e a partire anche dalle premesse poste qui, dovendo perciò contemplare: gli aspetti degli scambi economici, gli aspetti relazionali e gruppali, gli aspetti controversi della natura umana, gli aspetti delle esperienze concrete già svolte, ma aggiungerei anche gli aspetti meta-contestuali all’interno dei quali svilupperebbe oggi un nuovo comunitarismo.

È mai possibile, cioè, pensare ad una sperimentazione che esuli dalle regole del sistema in cui insiste? Credo proprio di no.

La sfida è quindi quella di immaginare una vita comunitaria oggi o domani che riepiloghi non-ideologicamente tutte le necessità di innovazione e cambiamento che la società ci propone, a cominciare dalla struttura dello scambio economico, fino a contemplare in quale dialettica quella comunità si ponga in funzione di ogni interfaccia interna ed esterna, ad esempio in funzione del rapporto individuo/gruppo, o famiglia/gruppo o del rapporto comunità ristretta/comunità allargata, solo per far alcuni esempi cruciali.

Se proviamo ad addentrarci nel vivo delle più acute contraddizioni che una vita comunitaria oggi ci proporrebbe, ci accorgiamo (e qui lo dico da gruppoanalista) che ciò che le esperienze di comunità ed anche le formulazioni teoriche più coraggiose fanno fatica a affrontare fino in fondo sono proprio questi nodi-interfacce individuo/gruppo, famiglia/gruppo, piccola comunità/grande comunità, dialettiche insature dell’interminabile lavoro personale di ognuno di noi. Questo perché i codici sociali che informano questi nodi cambiano rapidamente forma a queste dialettiche e con la forma cambiano anche, in buona parte, senso e contenuto.

Senza attraversare fino in fondo questi nodi, declinati al presente e concretamente, e non al passato e astrattamente, risulta difficile immaginare un comunitarismo contemporaneo.

Come (non) si costruisce una comunità nella mente di un preadolescente qualunque

Prendiamo in esame le seguenti interfacce:

1.       individuo/gruppo, 
2.       famiglia/gruppo, 
3.       comunità ristretta/comunità allargata.

Per fare ciò ho pensato di utilizzare, come approssimazione argomentativa a tali criticità, l’espediente del caso emblematico che, per quanto ben poco significativo sul piano scientifico, risulta invece esserlo sul piano narrativo e quindi probabilmente più euristico di tanti dati statistici. Caso emblematico, generico, medio, che mi consenta di verificare attraverso la semplice osservazione ed esperienza diretta di alcuni casi simili, nell’odierna formazione dell’individuo contemporaneo, quali siano i principali problemi inerenti la costruzione di una personalità comunitaria.

Come caso emblematico prenderò quello di un preadolescente qualunque di 10-12 anni, abitante in un contesto urbano. Scelgo questa età e questa tipologia per alcuni motivi: è quella che riesco ad osservare meglio grazie al fatto che ho una figlia di quella fascia di età e frequento molti suoi coetanei; è un’età in cui alcuni aspetti della personalità si vanno definendo ed altri sono ancora tutti da definire e quindi un’età particolarmente mobile ed esposta alle variabili sociali nella quale è più facile osservare le citate criticità nella loro fase sorgiva.

Proviamo a scandagliare la storia della socialità di un preadolescente contemporaneo anche in relazione alle interfacce critiche prima dette.

 
Contesto famigliare

Mediamente un ragazzino di 10-12 anni è vissuto in una famiglia con due genitori, entrambi che lavorano, saltuariamente o stabilmente. È più spesso figlio unico (46,5% , dati 2010) o al massimo ha un fratello/sorella (43% ), raramente ha più di un fratello (10,5%). I nonni materni e paterni quando non sono del tutto assenti perché in altra città, o morti, o inabilitati (casi questi piuttosto frequenti secondo la mia personale osservazione), possono essere disponibili, ma non a tempo pieno e vivono più spesso separati dal nucleo famigliare. Le rispettive famiglie allargate, materne e paterne, molto spesso sono disaggregate e la presenza di zii e zie è saltuaria e evanescente se non del tutto assente. In molti casi la stessa coppia genitoriale è separata (31% dei casi, dati 2011 ) e la vita del ragazzino si deve organizzare tra una residenza principale e un’altra, minoritaria, o tra due residenze sullo stesso piano, spesso dovendo convivere con nuovi compagni/e dei genitori variabilmente integrati. Importantissima la presenza quasi costante di baby sitter, colf o aiutanti domestiche di varia tipologia che si affiancano al lavoro dei genitori e dei nonni, laddove presenti, e sopperiscono in maniera decisiva a moltissime incombenze.

Già soffermandoci su questo primo spaccato riguardante la struttura della famiglia, possiamo dedurne che bambini che crescono con una comunità famigliare o rete naturale articolata e stabile sono nella mia esperienza e osservazione diventati una netta minoranza e tutti gli altri si arrangiano come possono.

 
Reti sociali

Le agenzie sociali che intervengono a vario titolo nella formazione della gruppalità di un ragazzino preadolescente nei suoi primi 10-12 anni di vita possono essere molteplici, ma essenzialmente sono: la scuola, la chiesa, diverse attività sportive/ludiche/apprendimento extrascolastiche.

La scuola entra prestissimo, a volte già entro il primo anno di vita, con i nidi pubblici o privati, nella vita dei bambini con la propria organizzazione gruppale di altri bambini e altri adulti e s’impone come la principale alternativa alla vita famigliare dell’individuo. Laddove l’organizzazione sociale di soli pochi decenni fa, con uno solo dei genitori lavoratore, rendeva nido e materna indispensabili solo per pochi, oggi già dalla primissima infanzia i bambini trascorrono molto tempo della settimana (circa 40 ore settimanali) lontano da casa e incontrano i genitori la sera per cena e il weekend (quando va bene). Poche le famiglie che possono consentirsi un solo genitore lavoratore e il tempo limitato a scuola. Giunti alle elementari sono già tanti i bambini figli unici o con un solo fratello che trovano nelle gruppalità scolastiche uno spazio mentale-sociale di riferimento, con frequentazioni anche casalinghe e talora incrociate con altre attività extrascolastiche di altri bambini e amichetti. Piccole amicizie esclusive o a piccolissimi gruppi di affezionati, spesso coincidenti con frequentazioni amicali dei corrispondenti genitori (sarebbe da approfondire il discorso delle nuove reti sociali diciamo così, di “prossimità filiale” da un punto di vista psico-antropologico).

Finite le elementari, il delicatissimo passaggio alle scuole medie, troppo spesso vero e proprio purgatorio-pattumiera sociale dell’istituzione scolastica italiana, rappresenta di fatto un importante test di tenuta di tutto l’apparato psicosociale che fino a quel momento ha costruito l’individuo. Test che vede non pochi inciampi e non poche problematiche emergenti per di più in una fase esistenziale dell’individuo, la pubertà, irta di pericoli psicologici.

Ma accanto alla predominante funzione sociale della scuola (di cui la scuola stessa spesso non è del tutto consapevole), spesso la vita gruppale dei bambini si articola con altre frequentazioni fisse:

    1. la parrocchia è un forte attrattore, per le famiglie credenti naturalmente, specie se ha strutture sportive e ludiche per accogliere bambini, e anche per via delle numerose attività che organizza (Scout, gruppi vari, colonie estive, catechismo, corsi vari);

    2. le innumerevoli attività ludico/sportivo/formative che quasi tutte le famiglie organizzano il pomeriggio per i ragazzini appena usciti da scuola: calcio, basket, equitazione, arti marziali, danza, canto, musica, coro, teatro, ludoteche, etc… Una porta girevole che accoglie i bambini usciti da scuola che vengono scaraventati in queste attività dove ritrovano altri bambini (a volte qualcuno conosciuto) con i quali fare amicizia e altri adulti-maestri dai quali apprendere altre attività.

A volta queste gruppalità sono come dei salvagente rispetto ad altre disfunzionali, nei quali i bambini trovano una dimensione più ristretta e rilassata; altre volte rappresentano contenitori di mero intrattenimento che non consentono l’approfondimento di relazioni e trame mentali durature e significative.

 
I grandi assenti: strada, cortile, condominio, quartiere

In questo bailamme di luoghi e persone che convulsamente si avvicendano nella mente del ragazzino forse occorre sottolineare che nei contesti urbani, tale affastellamento di appuntamenti e luoghi di intrattenimento va esattamente a sopperire alla mancanza di strutture antropologiche spontanee di prossimità che sono tramontate quali potevano essere fino a pochi anni fa (e forse in alcune realtà non eccessivamente urbanizzate sono ancora oggi) la strada, i cortili, i condomini ed in genere la vita di quartiere. Accade oggi che le strade sono oggettivamente pericolose, nei cortili e nelle piazze è vietato giocare, i condomini troppo spesso sono forme di comunità conflittuali, i quartieri luoghi inospitali per i bambini se non per le sale slot che hanno sostituito i bar con i biliardini e i ping pong. Esistono solo, quando va bene, delle aree-giochi attrezzate per bambini fino ai 10 anni, in giardini pubblici, dove è raro ritrovare le stesse persone che le frequentano, e che guarda caso sono spesso e volentieri occupate da ragazzini più grandi ed anche adolescenti.

 
Gruppi di amici

Fino ai 12 anni un ragazzino che quasi mai si sposta da solo, frequenta e incontra i propri gruppi di amici, dei quali poi frequenta più assiduamente di fatto un piccolo o piccolissimo sottogruppo, o nei luoghi istituiti (scuola, parrocchia, attività sportiva extrascolastica, raramente per strada, cortile, in piazza), o dentro le case, la propria o quella dei propri amici. Queste amicizie raramente si mantengono e si estendono al di là delle occasioni di frequentazione date dai cicli scolastici o dalle attività ricreative specifiche, e si alternano con una certa rapidità. Sono quindi quasi tutte per così dire amicizie “stagionali” e si comportano come variabili dipendenti dai contesti e dai luoghi di frequentazione: più essi sono stabili, più è facile che l’amicizia si mantenga nel tempo, altrimenti tende ad essere labile.

Conclusioni

Dopo aver sorvolato – certo, con un volo troppo alto – le gruppalità di questo ragazzino generico preadolescente, contemporaneo, italiano, urbanizzato, di ceto medio, alla vigilia di grandi trasformazioni nella sua personalità alcune considerazioni dobbiamo pur svolgere, soprattutto in funzione degli obiettivi iniziali di questo lavoro e cioè esplorare le aree di criticità della costruzione di una vita mentale comunitaria.
E a tal proposito occorre rilevare che il bilancio che emerge da questa prima ricognizione appare alquanto controverso se non a tratti preoccupante.

Secondo questa mia osservazione, l’individuo contemporaneo, alla vigilia dell’adolescenza, non ha ancora potuto sviluppare, se non in rare, fuggevoli e fortunate occasioni, una vera e propria personalità comunitaria, non ha potuto cioè esplorare dentro e fuori di sé le principali criticità citate all’inizio dell’articolo.
Troppo spesso, abbiamo visto, proviene da un contesto familiare già sfilacciato dove il luogo degli affetti e della cura non coincide quasi mai con una sufficiente numerosità delle relazioni e troppo spesso anche con una necessaria continuità di tempi e spazi.

L’individuo contemporaneo sembra possedere, se ci dovessimo basare sull’osservazione degli attuali stili di vita, gruppalità diacroniche, cioè costellazioni di relazioni duali o di piccole gruppalità, sviluppate nel tempo senza molte occasioni di vita comune collettiva sincronica. Come detto, famiglie di tre, massimo quattro persone che s’incrociano a malapena a cena e nei weekend, che si frequentano in modo parcellizzato (ora la mamma, ora il papà, ora i nonni, ora la tata, ora la famiglia dell’amichetto) che delegano funzioni di cura e spesso anche affettive a soggetti supplenti, spesso mutevoli ed intercambiabili. Totalmente saltate le ritualità dei pasti in comune, ultimi baluardi di una vita famigliare del recente passato, nuove ritualità avanzano, di sapore tecnologico, ma senza che esse vadano a configurare autentici spazi di condivisione e di partecipazione.

L’individuo che oggi arriva all’adolescenza si confronta con una serie di identificazioni famigliari più evanescenti rispetto al recente passato. Sembra abbia imparato a navigare in un mare di legami talora anche forti ma incostanti e soprattutto intermittenti e sparpagliati. Non c’è una “tribù” che convive assieme nella sua mente, piuttosto una mappa con tanti indirizzi e numeri di telefono separati e lontani tra di loro. (Diversa la situazione dello stesso ragazzino appartenente a comunità etniche di prima o seconda generazione immigrate in Italia. In tal caso quanto detto non è valido.)

Quale dialettica famiglia/gruppo istituisca questo stile di vita è qualcosa che dobbiamo ancora scoprire del tutto, ma certamente convivere/condividere per lui avrà un significato del tutto differente rispetto alle generazioni precedenti.

Se la rete naturale appare sparpagliata, le reti e le agenzie sociali fanno ciò che possono e spesso non brillano di spirito comunitario.

La scuola produce tantissima vita comunitaria, ma tranne rare eccezioni, questo sembra avvenire “a sua insaputa”, cioè la scuola non sente troppo come proprio compito la socialità degli allievi, quanto piuttosto l’istruzione, motivo per il quale spesso queste esperienze appaiono piuttosto come effetti collaterali della vita scolastica per cui spesso sono esperienze che non vengono vissute pienamente e non vengono integrate in una trama mentale specifica. E motivo per il quale ci capita di commuoverci, magari sentendoci un po’ stupidi,  durante gli spettacoli di fine anno davanti a centinaia di bambini che ballano e cantano all’unisono, come se fossimo davanti ad eventi fortunati e isolati come le vittorie della nazionale ai campionati del mondo.

Le estemporanee gruppalità legate alle attività pomeridiane per quanto quasi tutte si basino su attività di gruppo, raramente vanno a strutturare vita mentale comunitaria, esse si configurano e quindi si rappresentano come spazi transitori e di passaggio e quindi si candidano ad essere, per quanto vissuti talora con passione e intensità, come una sorta di non luoghi della mente. Qualche volta se l’attività si radica come particolare passione personale e prosegue nel tempo, essa può conservarsi come struttura gruppale positiva. Ma questo sembra piuttosto un’eccezione e non la regola.

Le parrocchie sono probabilmente gli unici (o tra i pochi), residuali, luoghi in grado, per storia e tradizione, di trasmettere brandelli di vita mentale comunitaria attraverso ad esempio le esperienze di scoutismo e le attività strutturate interne dalle comunità religiose locali, laddove presenti e laddove funzionali. Peccato che gli ordinatori simbolici che presiedono il comunitarismo religioso divergono in maniera sensibile da quelli del resto della società laica. Risultato, è che l’esperienza positiva che talora è riscontrabile per molti bambini e ragazzi rischia per questo motivo di creare scotomizzazioni e di rappresentare un’enclave felice e un rifugio sicuro al riparo dal resto del mondo. Rifugio che per essere protetto richiede ad un certo punto un nefasto lavoro di ideologizzazione.

Sul versante sociale, non diversamente rispetto alla rete naturale della famiglia, troviamo quindi molti problemi di continuità, strutturazione, osmosi ed integrazione delle esperienze, tali per cui è molto difficile riscontrare legami e relazioni continue nel tempo e connesse ad esperienze di attività permanenti.
Non da ultimo, il problema principale è forse costituito dall’assenza, nello psichismo delle agenzie sociali, di adeguate culture comunitarie (non basate su ordinatori metafisici come nel caso di quelle religiose) in grado di trasmettere e far esperire quella che per Kaes rappresenta la triplice funzione dei garanti metapsichici e cioè: assicurare un’origine, stabilire una continuità, assicurare un posto nel gruppo.

Tutto ciò non viene più garantito da nessuno, non esiste più un luogo sociale dove poter mettere ciò che troviamo. Cambiano perciò radicalmente le condizioni del contratto narcisistico (Aulagnier) che presiedevano il rapporto individuo/gruppo e individuo/società nelle società precedenti a questa.
 
Alla luce di quanto fin qui detto, questo ragazzino dodicenne contemporaneo, ci appare un individuo comunitario ancora troppo impreparato per cambiare il futuro del mondo.

C’è ancora molto lavoro da fare per tutti noi. Ma non disperiamo.

Tratto da: Luigi D’Elia  Alienazioni Compiacenti, star bene fa male alla società, 2015

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