Mente paleolitica e capitalismo. Pressioni evolutive insostenibili sulle dotazioni originarie dei sapiens moderni

Che strana specie, quella dei moderni sapiens: provvista del cervello più complesso dell’ecosistema in cui vive, e mai così incoscientemente sconnessa proprio dallo stesso ecosistema. Specie intelligentissima e stupidissima, sapiens e demens, allo stesso tempo, direbbe E. Morin, autore de Il paradigma perduto, da cui abbiamo tratto ispirazione per questo scritto. Intendiamoci: il problema qui non è possedere una “mente paleolitica”, come ci indica il titolo di questo lavoro. L’apparato psicologico dei sapiens moderni, strutturalmente identico a quello dei nostri antenati paleolitici, va più che bene così com’è e così come madre natura ce l’ha consegnato, nuovo di pacca, appena 200.000 anni fa circa (che dal punto di vista evoluzionistico è un periodo molto breve). I problemi sono ben altri, sono le pressioni ambientali che i nostri più comuni stili di vita stanno operando sulle nostre dotazioni di specie che risultano sempre più insostenibili e inaccettabili. Di questo tratterà questo mio breve saggio: la naturale lentezza evolutiva della mente sapiens a confronto con l’insostenibilità del sistema-prigione dentro il quale ci siamo, sempre più compiacentemente, reclusi. Pretesa di flessibilità infinita delle dotazioni iniziali contro invalicabilità di esse.

Eppure sarebbe sufficiente riepilogare tutte le caratteristiche che come specie ci hanno portato al “successo evolutivo” (ci riferiamo alle condizioni dell’ominazione, specialmente quella legata all’ultimissima ramificazione ominide, risalente a circa 200.000 anni fa, quella dei sapiens moderni – F. J. Ayala), per comprendere che le nostre principali variabili di successo sono scritte in gran parte già nella nostra storia ancestrale bio-culturale. Un felice rispecchiamento co-evolutivo tra caratteri anatomo-fisiologici e caratteri comportamentali, o forse per meglio dire, caratteri psico-sociali.

Volendo concentrarci sulle variabili morfologiche e abilità più specifiche e prossime dei sapiens e dando per acquisite le variabili già comuni ai nostri più antichi predecessori ominidi (bipedismo, posizione eretta e visione stereoscopica, liberazione delle mani e opposizione del pollice, aumento cure parentali, socialità, linguaggio elementare, uso di tecnologie di caccia), ci rendiamo presto conto che tale riepilogazione risulta illuminante anche riguardo la nostra più stretta attualità, dal momento che ci fornisce informazioni essenziali per comprendere in filigrana dove, proprio oggi, i nostri stili di vita ci portano a gravi punti di rottura.

Ma vediamo assieme le variabili specifiche dell’ominazione dei sapiens moderni (rielaborazione da F. J. Ayala):

Grandezza e complessità del nostro sistema nervoso (e relativo fabbisogno di ore di sonno), sviluppo del cervello post-natale e aumentata plasticità neuronale. I sapiens sono gli unici mammiferi che sviluppano il cervello per alcuni anni dopo la nascita. Dotato di una neocorteccia enormemente accresciuta, il cervello sapiens si evolve plasticamente per tutta la vita e necessita di una laboriosa manutenzione quotidiana garantita dalle ore di sonno (e di sogno). Il sonno notturno preferito dai sapiens (apparente svantaggio evolutivo, vista la prevalenza di predatori notturni) appare come conquista di una specie prevalentemente visiva, e quindi diurna, già in cima alla catena alimentare, che garantisce a sua volta la manutenzione del funzionamento di facoltà cognitive essenziali come la memoria e l’organizzazione delle sempre più complesse funzioni cerebrali necessarie sia alla vita emotiva che alla vita sociale.
Aumento ulteriore della neotenia e delle cure parentali (immaturità prolungata). Già dal secolo scorso (Bolk) si era intuito che nessuna specie mammifera cresce così lentamente come l’uomo e possiede la fase di maturità-invecchiamento altrettanto prolungata. I tempi lunghissimi di apprendimento si collegano in maniera circolare da una parte all’accrescimento neurologico prima descritto, dall’altro al laborioso adattamento alla complessità dell’ecosistema culturale che la società umana ha dovuto costruire per compensare il contestuale disambientamento naturale. La neotenia è uno degli snodi crocevia di innumerevoli variabili evolutive.
Uso articolato del linguaggio e della comunicazione. Le numerose modifiche dell’apparato fonatorio (in particolare l’abbassamento della laringe assieme all’allargamento del palato) e lo sviluppo della neocorteccia assieme all’acquisizione di pensiero astratto e simbolico creano immediatamente innumerevoli vantaggi adattativi. Scrive Deacon: organizzare le battute di caccia; spartirsi il cibo; comunicare informazioni sulle fonti di cibo distribuite; pianificare la guerra e la difesa; trasmettere l’abilità nella creazione di utensili; condividere importanti esperienze passate; stabilire legami sociali tra individui; manipolare potenziali rivali o partner sessuali; accudire e addestrare i giovani; etc. I sapiens moderni usano il linguaggio decisamente più articolato dei loro predecessori ominidi e sono geneticamente più predisposti fin dalla primissima infanzia all’apprendimento rapidissimo di tale codice. Nella specie sapiens il linguaggio è da intendersi come un vero e proprio organo naturale (Chomsky), come tecnologia-dotazione innata specie-specifica incarnata e geneticamente trasmissibile.
Assenza di peli sul volto, aumento muscolature fini facciali e affinamento della mimica facciale. A corollario e complemento delle inedite capacità comunicative, i sapiens sono gli unici ominidi che si sono specializzati nel riconoscimento degli stati emotivi del proprio simile. Questo grazie allo sfoltimento pilifero del volto e l’incremento enorme della mimica facciale e delle corrispondenti strutture neurologiche sottostanti.
Salto evolutivo nella cooperazione intra-gruppo e sviluppo dell’empatia (neuroni mirror). La specie sapiens ha ottimizzato più di altre una dotazione già presente nella propria filogenetica, i neuroni-specchio, che consentono attraverso la “consonanza intenzionale” (ed emotiva) e la “simulazione incarnata” (Gallese), attraverso cioè l’acquisizione di competenze sociali elementari di tipo empatico, ed in parallelo con le competenze comunicative e linguistiche. La maggiore funzione empatica consente lo sviluppo di inedite e più complesse capacità organizzative gruppali: comprensione e previsione delle intenzioni altrui, facilità di imitazione, capacità di compassione, etc.
Maggiore organizzazione sociale attraverso la cooperazione e la mobilità di gruppi mediani e famigliari allargati Il circuito virtuoso di empatia, consonanza, imitazione, comunicazione complessa, capacità cognitive evolute (astrazione, previsione, coordinamento, apprendimento rapido, etc), ha probabilmente consentito ai sapiens fin da subito di sperimentare organizzazioni sociali estremamente flessibili ed efficienti, con divisione del lavoro, e l’apprendimento di strategie di sopravvivenza basate sulla cooperazione di gruppalità presumibilmente piccole e mediane (alcune decine di unità, De Maré), in grado di muoversi agilmente in situazioni difficili. In particolare la loro specializzazione sociale include: 1. dimensioni grandemente accresciute del territorio domestico con difesa dei confini territoriali per impedire infrazioni a danno delle risorse alimentari; 2. organizzazione associativa di gruppi umani interdipendenti e affiliati, di dimensioni variabili ma relativamente piccole; 3. larghi raggruppamenti familiari con prolungati rapporti maschio-femmina, proibizione dell’incesto, regole di esogamia per gli accoppiamenti, e sub-gruppi basati sulla parentela; 4. divisione del lavoro in base al sesso; 5. comportamento altruistico, con spartizione del cibo, aiuto reciproco e cooperazione; 6. comunità linguistiche basate sul linguaggio. (Gabriella Giudici). I sapiens, dunque, si connotano sempre più come specie eminentemente sociale e la cognizione sociale sembrerebbe precedere e consentire le altre forme di cognizione.
Affinamento delle abilità manuali e tecnologiche. I sapiens segnano altresì uno scarto evolutivo in avanti nelle abilità manuali sempre più fini rispetto ad altre specie ominidi e nell’uso di tecnologie inizialmente grossolane e via via sempre più evolute. I sapiens moderni segnano un salto in forme di artigianato di notevole fattura rispetto agli ominidi precedenti. Punte di frecce più raffinate, strumenti di caccia sempre più efficaci (lance a lunga gittata), conciature di pelli, cucitura di vesti, conservazione del cibo, conservazione del fuoco, fattura di oggetti quotidiani, decorazioni, etc. Anche questo sembra collegato allo sviluppo della neocorteccia. Sapiens e techné procedono fin dall’inizio in parallelo.
Che l’intera dotazione dei sapiens abbia prodotto da un certo punto in poi un vero e proprio salto evolutivo è testimoniato dei reperti archeologici pittorici che compaiono, da circa 42.000 anni in qua, nelle grotte abitazioni dei nostri progenitori. Da un lato la neocorteccia s’è evoluta per sostenere l’apprendimento e la pianificazione (e dunque il pensiero causale), dall’altro
Salto cognitivo: attività simbolica, ragionamento causale e astratto, creatività, mente narrativa. l’interazione circolare e virtuosa creatasi tra socialità complesse (che richiedevano capacità negative come l’infingimento), capacità simboliche e competenze linguistiche e narrative sempre più raffinate, ha consentito lo sviluppo di capacità creative del tutto inedite. Nascono racconti mitologici in grado di inventare mondi (la rivoluzione cognitiva secondo Harari) al servizio di più complesse interazioni gruppali.
Evoluzione della sessualità, ovulazione criptica e distacco dall’estro stagionale e dalla finalità riproduttiva. La femmina sapiens moderna è l’unica tra i mammiferi che ha fatto a meno dell’estro, ovverosia del richiamo chimico ai maschi riguardo la propria fertilità (ovulazione criptica). L’uomo è l’unico mammifero che ha cambiato radicalmente le regole del gioco riproduttivo fino ad allora vigenti in natura ed è, tra l’altro, una delle pochissime specie (assieme a delfini e altre scimmie evolute) che è riuscita a slegare, relativamente, sessualità e riproduzione, spostando di fatto la sessualità sul terreno dell’organizzazione sociale e del piacere come cemento relazionale. Su motivi e conseguenze di questi cambiamenti esistono molte ipotesi e dibattiti. Sembrerebbe che la mancanza di estro (che viceversa lega le altre specie ad una fitness evolutiva stringente e dipendente dall’adattamento al proprio ecosistema: quindi sono i maschi dominanti che prevalentemente trasmettono i propri geni alle generazioni successive) consenta alla femmina sapiens di selezionare caratteristiche evolutive non immediatamente legate alla dominanza fisica bensì a caratteristiche (caratteriali e sociali) più idonee alle necessità di accudimento prolungato (vedi neotenia) della coppia generatrice e in generale del gruppo, ma anche a “indicatori” (Zahavi, in Bruni D.) di idoneità molto più legati ad una serie di competenze cognitive e sociali invece che alla forza. Ciò diminuirebbe l’aggressività e la competizione riproduttiva tra maschi dominanti e vincolerebbe e orienterebbe il gruppo e la sessualità verso l’accudimento prolungato della prole (Trivers in Bruni D.). Riproduzione e sessualità si culturalizzano e si socializzano e si mettono a disposizione delle nuove esigenze neoteniche, ma anche al servizio dell’intimità uomo-donna.
L’invenzione della cultura. Il balzo più sorprendente e ampio che i sapiens compiono, come correlato e come fenomeno circolarmente connesso a tutte le novità che tale specie introduce e che stiamo qui descrivendo, è la risposta ipercomplessa che le società umane hanno potuto sviluppare a seguito del “baratro” creatosi nel processo di disambientamento e in particolare nella scelta evolutiva di privilegiare abilità e intelligenza al semplice adattamento genetico all’ecosistema. Il sapiens, scimmia nuda, scimmia immatura, animale imperfetto (Gehlen Arnold), essere disambientato e in continuo movimento e migrazione, è anche l’animale culturale, l’animale parlante, che impara a trasmettere i propri codici essenziali alla sopravvivenza del gruppo attraverso sistemi di apprendimento rapidi ed efficaci (comunicazione, imitazione, apprendimento continuo, narrazione, regole, miti, organizzazione sociale, etc). Codici in grado di autoriprodursi nel brevissimo tempo e di mantenersi stabili tra le generazioni, ma anche di modificarsi rapidamente a seconda dei cambiamenti ecologici. Questo insieme di codici, mai così complesso come per i sapiens moderni, è l’embrione della cultura, la costruzione cioè di una realtà parallela (ma non in opposizione) alla natura dentro la quale la specie sapiens decide di trasferirsi per governare meglio tutti i processi di sviluppo. Da un certo punto in poi ogni sviluppo della condizione umana si sposta sul campo tecno-culturale e non è strettamente più dipendente dai cambiamenti dell’ecosistema naturale. Condizione ed evoluzione umana prendono in tal modo velocità estremamente diverse.
Coscienza della morte e emersione dell’idea di al di là. Una delle caratteristiche distintive della specie sapiens è la coscienza piena, tragica, della morte. Tratto distintivo che si deduce dalla consuetudine alla sepoltura, abitudine già in uso presso altre specie ominidi appena precedenti o contemporanee ai sapiens. Certamente già i Neanderthal seppellivano i morti e probabilmente hanno preceduto i sapiens in tale abitudine. Allo stesso modo anche i sapiens utilizzavano sepolture ritualizzate, con funerali, rituali di congedo e di memoria, uso di oggetti di accompagnamento e di colori (l’ocra in particolare) e posizionamento fetale della salma. Molto probabile il nesso tra riti, miti e cerimonie proto-religiose, così come è probabile l’emersione di una matrice creativa e simbolica, presente nelle produzioni grafiche, proprio a partire dalla complessa elaborazione collettiva della morte e delle angosce ad essa collegate.

Quale meraviglioso affresco di dotazioni questo appena descritto! Ma se si vuole avere una visione d’insieme, il punto è quello di saper leggere tutte queste dotazioni (ognuna unica nella propria inedita complessità) in una assoluta circolare interconnessione. Anzi, si può senza dubbio sostenere che, nell’affresco finale, non è concepibile l’esclusione di alcuna specificità tra queste qui descritte. Tutte queste meravigliose dotazioni, in concerto, hanno concorso all’evoluzione, e come in un mirabolante meccanismo ad orologeria, hanno determinato il successo e l’espansione della specie sapiens su questo ecosistema. Solo nel loro insieme rappresentano un salto evolutivo che ha a sua volta prodotto la nascita della coscienza e lo sviluppo della creatività umana. I sapiens sono, perciò, molto più della somma delle loro dotazioni morfologiche e psicologiche, e l’intero corollario appena descritto sarà ben presto premessa e causa diretta di ulteriori sviluppi secondari, veri e propri salti qualitativi a carico della creatività, dello sviluppo del pensiero narrativo e astratto, dell’organizzazione gruppale, della sessualità, della coscienza di sé, delle abilità tecnologiche, etc.

Ma l’enorme adattabilità e flessibilità della nostra specie può diventare allo stesso tempo fortuna o disgrazia, a seconda delle pressioni ambientali che attraverso le diverse fasi storiche impattano in vario modo su tali dotazioni. Siamo infatti l’unica specie del nostro ecosistema che, per motivi evolutivi legati al super sviluppo della neocorteccia cerebrale, si è relativamente disambientata rispetto alle normali routine genetiche e ha costruito un contesto parallelo chiamato socio-cultura, con regole proprie e distinte e soprattutto con

passaggi evolutivi sorretti essenzialmente dalle successive scoperte tecniche. Ma, per le medesime ragioni legate a tale “potenza di fuoco”, abbiamo un altro, triste primato: siamo anche l’unica specie in grado di distruggere il proprio ecosistema.

Una semplice questione di accenti o la scelta di una direzione da intraprendere?

Da notare che tutte queste dotazioni in elenco appartengono alle fasi preistoriche e come ci avverte la psicologia evoluzionistica, non sono sostanzialmente mai cambiate. Ciò che è cambiato, in particolare negli ultimissimi decenni, è la natura e la forza delle pressioni evolutive dettate dai cambiamenti storico-sociali per cui assistiamo ad uno snodo critico nel quale, non a caso, gli sviluppi tecnologici e socioeconomici ci vorrebbero imporre una mutazione (evolutiva o involutiva?) che ci modelli sul modo di vita capitalistico, mutazione verso cui le nostre dotazioni di base appaiono del tutto insufficienti o, forse, per meglio dire, del tutto invalicabili.

Il rovescio della medaglia, le dotazioni originarie dei sapiens alla prova della storia

Prendiamo il caso della neotenia:

La neotenia è un crocevia evolutivo centrale nella storia dei sapiens moderni, è la prova provata che l’uomo non è più totalmente schiavo del suo background animale, ma la complessità del mondo parallelo che ha via via costruito, chiamato cultura, grazie allo sviluppo parallelo di linguaggio, organizzazione gruppale cooperativa, sessualità evoluta, tecniche di sopravvivenza, ha richiesto ai suoi cuccioli un periodo di apprendimento, adattamento e dipendenza dalle cure parentali (detto appunto neotenia) sempre maggiore nel corso della sua storia evolutiva. Periodo di apprendimento che, ad oggi, a seguito dell’incommensurabile complessificazione della società, appare sempre più insufficiente e quindi di conseguenza sempre più protratto fino a diventare sine die. Nel mondo tecnologicamente avanzato e iperdromico contemporaneo, nessun adulto anagrafico può dirsi compiutamente addestrato ad abitarlo, nessuno è mai abbastanza competente delle regole esplicite ed implicite che governano i sistemi sociali. Accanto ai ben noti fenomeni di analfabetismo funzionale, che appaiono come diretta conseguenza di tale incolmabile impreparazione, si registra un comune smarrimento intergenerazionale dovuto alla rapidità delle rivoluzioni tecno-sociali e all’inflazione parossistica della psicosfera e infosfera.

La neotenia, nella specie sapiens, ha ormai, di fatto, alienato il proprio scopo originario e lo ha di fatto tradito. Detto in altri termini: rimanere giovani e ricettivi ai cambiamenti non è oramai più utile a vivere meglio nella realtà che i sapiens hanno costruito. Non è più possibile, data la complessificazione delle condizioni sociali, garantire ai giovani della specie sapiens una porta d’ingresso convenzionalmente riconoscibile nella fase

compiutamente adulta, con la relativa partecipazione attiva alla vita sociale.

Se fino al recente passato (P. Virno, 2004) era possibile interpretare la neotenia come caratteristica filogenetica opportunamente flessibile al servizio della formazione continua e delle virtù produttive del capitalismo, oggi dopo solo 20 anni, nella nuova fase digitale del capitalismo, tale presunta flessibilità sembra essere venuta meno lasciando il posto al ritiro sociale come risposta riflessa di milioni di giovani al no-future, alle sempre maggiori pretese di un sistema non prevede più alcun diritto sociale e al contempo lascia alle prossime generazioni un mondo allo sbando. Essere in una formazione continua diventa quindi una forma di sarcasmo a cui tantissimi giovani oppongono ritiro, abbandono, disincanto, disperazione.

Detto altrimenti, la giovanilizzazione che caratterizza secondo molti studiosi la nostra posizione perennemente esplorativa e adattativa, uno degli aspetti di successo evolutivo della nostra specie, mostra di sé l’altra faccia della medaglia: l’impossibilità di transitare senza forti traumi attraverso i cicli vitali necessari all’accesso ad una maturità effettiva e anche allo sviluppo di generazioni successive.

Cosa dire invece della cosiddetta plasticità neuronale?

Per plasticità neuronale non intendiamo solamente la caratteristica del cervello umano di evolversi nel corso di una vita grazie alla crescita e alla mobilità dendritica e quindi anche di auto-modificarsi, ma anche la capacità di tale gigante evolutivo, chiamato cervello umano, di trovare soluzioni adattative in ogni condizione ecologica sul pianeta.

Abbiamo detto che i sapiens hanno sostituito la forza con l’abilità, l’organizzazione del gruppo e una superiore intelligenza data dalla crescita esponenziale della sua neocorteccia. Abilità cognitive e abilità manuali e tecnologiche hanno permesso ben presto l’emersione della coscienza di sé, associata ad un sentimento di dominio. L’uomo ha ben presto percepito in sé la scintilla divina e l’illusione di governare tutti gli eventi naturali ed è a questo ruolo dominante che egli stesso si assegna in moltissimi miti cosmogonici: re del mondo incoronato da Dio, sfruttatore unico delle risorse animali, vegetali, idriche, minerarie, e capace di vivere in ogni condizione climatica ed ecologica pur di sopravvivere e di seguire le tracce delle sue prede e di prevedere lo sfruttamento delle risorse e l’andamento dei cicli naturali.

La ben nota flessibilità-plasticità umana è però da sempre anche motivo di autosfruttamento ed è, paradossalmente, contemporaneo motivo di orgoglio laddove si scopre in grado di realizzare opere gigantesche e sorprendenti. A cominciare già in epoche preistoriche dall’antropizzazione di innumerevoli paesaggi naturali, deforestazioni, estinzioni di specie, fino a giungere in epoche storiche a noi più prossime a urbanizzazioni, deviazioni di fiumi,

escavazioni, costruzioni megalitiche e via dicendo.

In buona sostanza plasticità neuronale e capacità adattative straordinarie sono alla base del sentimento di onnipotenza e tracotanza, ben noto all’umanità stessa fin dai primordi e motivo di auto-ammonimento attraverso molti miti (quello della torre di Babele, come esempio su tutti).

Se prendiamo in considerazione il guardiano della plasticità neuronale, il sonno, possiamo renderci conto come alcuni studi sociologici sul sonno (J. Crary), hanno dimostrato la drastica riduzione delle ore medie di sonno dormite negli ultimi 100 anni dall’umanità: da circa 10 a 6,5. Una riduzione impressionante! Le esigenze produttive e culturalmente adattative (esigenze di lavoro dell’epoca industriale e post-industriale in primis) degli ultimi secoli e decenni hanno portato a pensare di agire sul sonno come su un confine flessibile qualunque. Drammatico errore! Osserviamo una recente escalation nella nuovissima versione dell’attuale capitalismo digitale, il capitalismo della sorveglianza, basato sulla mercificazione dell’attenzione, che ci vuole incollati senza pause a qualche dispositivo a nutrire il nulla assoluto (ultime stime italiane indicano una media di circa 6 ore al giorno con qualche device acceso e connesso), che sta portando alle estreme conseguenze tale tendenza con il risultato i disturbi del sonno e le vistose conseguenze sulla salute mentale stanno diventando sempre maggiori.

Ugualmente, se consideriamo la presunta flessibilità lavorativa e le ore di lavoro di cui i sapiens sono capaci, V. Cregan-Reid nel sorprendente “Il corpo dell’antropocene” (2020) ci racconta, tra le altre cose, che la vita lavorativa di un sapiens nel paleolitico, per ovvie ragioni di faticosità, non superava le 4-6 ore giornaliere. Nel paleolitico, le ore di attività erano legate alle incombenze giornaliere, particolarmente intense: la scuoiatura, la conciatura, la cucitura di pelli, la raccolta e la caccia di cibo sufficiente, il mantenimento delle rudimentali abitazioni e la conservazione del fuoco e la preparazione del cibo, le attività artigianali per la costruzione di oggetti e strumenti utili. Ma giunto all’esaurimento delle forze, il lavoro si fermava e i tempi del riposo, della socialità e dell’ozio improduttivo dovevano presumibilmente essere stati, per molte decine di migliaia di anni, molto più ampi e dilatati a confronto con l’organizzazione delle giornate di un qualunque individuo postero contemporaneo. L’uomo paleolitico forse si annoiava molto di più, ipotizza qualcuno, ma presumibilmente il concetto di noia è molto più recente nella mente del sapiens e con ogni probabilità il tempo che noi oggi chiamiamo “morto” in tempi remoti non lo era affatto e garantiva all’apparato nervoso individuale e collettivo di rigenerarsi e dedicarsi ad attività creative (narrazione, musica, danza, etc).

Sonno, lavoro, attitudini mentali: probabilmente la presupposta plasticità neuronale non è affatto così plastica come la si vorrebbe pensare, e le conseguenze sull’apparato mentale e fisico dei sapiens contemporanei dei recenti stili di vita sono ancora tutti da evidenziare e svelare nelle loro drammatiche conseguenze.

Prendiamo ora il caso della organizzazione sociale dei sapiens.

L’intelligenza sociale dei sapiens e la sua inedita efficienza cooperativa sembrano essere l’esito finale di innumerevoli variabili ipercomplesse, come abbiamo intravisto in precedenza. A partire dalle ben note mutazioni morfologiche e neurologiche che hanno consentito un linguaggio e una comunicazione esponenzialmente più complessa ed efficace, passando dall’affinamento dell’area emotiva ed espressiva del volto e delle micro-muscolature facciali, senza trascurare il ruolo dei neuroni mirror in grado di cementare, attraverso lo sviluppo dell’empatia elementare, i legami di gruppo, l’intimità di coppia e famigliare. Ricordiamo infine che anche i sapiens moderni, come ultima arborescenza del ramo ominide, conservano una notevole riserva genetica sociale già presente nelle specie ominidi precedenti.

Accanto a queste caratteristiche genetiche-morfologiche favorevoli, e in virtù di esse, i sapiens hanno molto probabilmente imparato molto presto, da un lato a sfruttare le innate capacità cognitive, linguistiche e previsionali per l’organizzazione di piccoli gruppi di cacciatori per l’assicurazione di sufficienti riserve alimentari proteiche, dall’altro, grazie alla neotenia e alle contestuali accresciute capacità di accudimento della prole, hanno esponenzialmente sviluppato l’area dell’intimità madre-bambino e dell’intimità uomo-donna e contestualmente l’area della sessualità e, come ci suggerisce E. Morin, i sapiens sono stati in grado di costruire i primi legami parentali famigliari su cui si sono a loro volta costruite delle microsocietà multifamigliari portatrici però al contempo di una relativa apertura verso altre realtà tribali simili, grazie al già presente divieto dell’incesto.

Questa strutturazione microsociale, prevalentemente formata da piccole o medie realtà tribali (De Maré), ha probabilmente fin da subito cristallizzato tutta una serie di fenomeni di lealtà e appartenenza interna che la psicologia sociale studia da sempre come i noti fenomeni intra-gruppo che hanno il limite di rendere mediamente più faticosi sentimenti positivi verso altri gruppi umani limitrofi. In altre parole, la facilità con la quale risulta (sperimentalmente e spontaneamente) automatica la competizione inter-gruppi, va forse ricercata nella lunghissima storia evolutiva dei sapiens moderni per molte decine di migliaia di anni confinati nella vita dei cacciatori-raccoglitori sempre alla ricerca di fonti di cibo e di risorse naturali per la sopravvivenza di piccole tribù multifamigliari e sempre in concorrenza con altre specie animali, ma anche con altre realtà tribali limitrofe. La capacità aggregativa e cooperativa e la pro-socialità, dotazioni preziose e originarie dei sapiens, cemento dei fenomeni di appartenenza e identità collettiva, rovesciata la medaglia, possono ben presto, sotto pressione evolutiva culturale, convertirsi in fanatismo, conservatorismo e comportamento xenofobico.

Proseguendo nel voltare la medaglia

Insomma, se proseguiamo nella nostra analisi, ogni dotazione originaria dei sapiens

moderni, splendidamente efficace ed efficiente su scenari naturali anche estremi e su dimensioni sociali commisurate alla realtà dei cacciatori-raccoglitori paleolitici e neolitici, laddove la pressione evolutiva storica, specialmente recente, costringe a misurarsi con situazioni estreme, ma di natura socio-culturale, trova immediatamente il proprio limite e il proprio rovescio della medaglia.

Le competenze fini manuali assieme alle più evolute capacità immaginative del cervello sapiens, all’origine della perizia tecnica crescente, sono state una benedizione nell’evoluzione di primi sapiens, ma se rovesciamo la medaglia troviamo immediatamente una capacità di autodistruzione e frecce e lance al servizio della caccia diventano immediatamente armi al servizio della distruttività intraspecifica. Uomo e tecnica evolvono in un parallelismo assoluto e originario, ma dall’epoca storica in poi ogni salto evolutivo socio-culturale ha determinato una dipendenza dell’uomo dalla tecnica e un discontrollo sulle conseguenze potenzialmente distruttive che ogni evoluzione tecnica in sé contiene.

Allo stesso modo, ma con un meccanismo ancor più sorprendente e contro-intuitivo, la capacità empatica naturale iscritta nella predisposizione neurologica dei neuroni mirror, con la loro “consonanza intenzionale” e la “simulazione incarnata” (Gallese), all’origine dei comportamenti pro-sociali e cooperativi (probabilmente la dotazione più promettente dal punto di vista adattativo), può essere sospesa in ogni momento con un semplice meccanismo socio-linguistico di negazione (P. Virno) dell’umanità del prossimo. In tal modo, con questo rovesciamento della medaglia, si apre la strada ad ogni giustificazione di violenza e distruttività intra-specifica. Umanizzazione e disumanizzazione dell’altro amico o nemico sono componenti potenzialmente alternanti, contestuali e speculari e dipendenti dal contesto sociale.

Guardiamo ancora all’evoluzione della sessualità umana a partire dalle caratteristiche di partenza descritte e consideriamo la prospettiva evoluzionistica che ci rivela come e quanto ci siamo allontanati dalle incombenze selettive legate alle cure parentali e all’accudimento della prole. <<Sulla base sia della selezione sessuale che dell’investimento parentale (fecondazione, gestazione, tempo, cura, etc.) la psicologia evoluzionistica fa due previsioni. Nel caso del partner a breve termine: 1 Il sesso che investe di più nella cura parentale sarà più selettivo nella scelta del partner; 2 il sesso che investe di meno sarà più competitivo per l’accesso del sesso opposto>> (D. Bruni).

Questo doppio registro, sempre attivo nella scelta della partenership sessuale della nostra specie, che da un lato lega il vincolo di coppia al vincolo parentale e dall’altro lo slega totalmente, sembra oggi, sotto la pressione dei codici sociali individualistici e disaggregativi, spostare l’asse della sessualità nettamente nella direzione dello svincolo totale da esigenze di specie o sociali, restringendola quasi del tutto al soddisfacimento dell’individuo nella relazione. Ciò sposta lo statuto di coppia dall’esigenza di una più profonda finalità inter-generazionale al fine, solo apparentemente più semplice, di garantire il benessere dei singoli

membri della coppia.

E’ lecito supporre che le recenti analisi circa l’abbattimento del desiderio, del piacere e della sessualità, in ambito occidentale, siano da relazionarsi, tra le altre cento variabili in gioco, a questo rovesciamento delle finalità evolutive della nostra specifica sessualità. Un vero e proprio tradimento evolutivo che ha come effetto imprevisto la sottrazione di gran parte della profondità e dell’intensità dall’esperienza di corteggiamento e d’intimità nel gioco della scoperta del piacere sessuale.

Ed infine consideriamo lo sviluppo delle capacità cognitive dei sapiens, diretta conseguenza della inedita ipercomplessità della nuova condizione culturale da essi stessi creata. I sapiens per molte migliaia di anni hanno dovuto sopravvivere e ambientarsi contemporaneamente in una natura spesso ostile e in una cultura già troppo complicata. Questo doppio registro ha creato non pochi problemi allo stesso apparato cognitivo. Qui l’impatto della storia sulle architetture cognitive paleolitiche richiederebbe un libro a parte. Ci limitiamo ad accennare al lavoro di D. Kahneman (“Pensieri lenti e veloci”) come esemplificazione di tale impatto. L’ipotesi dei due sistemi cognitivi scoperti da Kahneman, uno lento e uno veloce, sembra essere la prova di come le architetture cognitive paleolitiche non si siano adattate alle pressioni evolutive della storia, specie quella recente, e che gli innumerevoli errori pregiudiziali (bias) di cui l’attuale sistema psichico umano è spontaneamente portatore non sono altro che la prova di atavismi e disadattamenti legati all’impossibilità di processare informazioni al di sopra della reali capacità elaborative. Una mente eccellente per il paleolitico che però viene intossicata da decine di bias durante le successive crisi storiche (pensiamo all’abisso raggiunto nel secolo scorso durante i totalitarismi e alle manipolazioni di massa, o pensiamo alla più recente crisi pandemica e ai livelli di irrazionalità raggiunti). Una mente veloce travolta dall’eccesso di informazioni e una mente lenta che non trova tempo e modo di applicarsi a continui problemi nuovi, troppo nuovi.

In conclusione, possiamo affermare che ogni dotazione specie-specifica dei sapiens, nel suo rovescio della medaglia, mostra di sé diverse vulnerabilità per lo più connesse al difficile modellamento che la mente paleolitica ha dovuto escogitare a seguito delle specifiche spinte ambientali condotte dalle più recenti società umane, specialmente nelle ultimissime fasi iperdromiche a seguito della rivoluzione moderna e post-moderna.

Lo scenario è quello di un mondo sempre più globalizzato, dall’epoca colonialista in poi, sempre più dipendente dai processi tecnologici, sempre più ordinato dai codici sociali del capitalismo, e di converso l’emersione di esigenze performative a carico dei sapiens che incidono pesantemente sulle loro dotazioni basiche e chiedono ad esse gradi di flessibilità inusitati e processi di adattamento ben al di là delle possibilità cognitive ed emotive di specie.

La fase iperdromica nella quale viviamo in questi ultimissimi decenni, sta assistendo a causa delle rivoluzioni tecnologiche e alla digitalizzazione in corso, ad un’ulteriore accelerazione, di qualità esponenziale, che rende ancora più torbido lo scenario della nostra psicosfera e della risposta dis-evolutiva relativa a spinte ambientali oramai fuori controllo.

Il mondo parallelo alla natura creato dall’uomo, chiamato socio-cultura, sarà di fatto negli ultimi 10.000 anni, dalla domesticazione di piante e degli animali in poi (la rivoluzione agricola), fonte inesauribile di condizioni mutagene di se stesso e del rapporto uomo-mondo. Questo attraverso le infinite scoperte e innovazioni tecniche che costelleranno la vita dei sapiens fino ai nostri giorni.

La grande novità consisterà, da questo punto in poi, nel fatto che tutti i cambiamenti della condizione umana successivi non avranno più come innesco una variazione, una mutazione, una riconfigurazione biologica o ecologica, bensì una innovazione tecnologica o un’invenzione che permetterà alla specie delle modifiche radicali del proprio mondo parallelo, chiamato socio-cultura, e delle modifiche radicali del proprio rapporto con tale mondo. Condizione umana ed evoluzione umana prendono due velocità estremamente diverse: la prima accelera a dismisura, la seconda procede ecologicamente con la propria ancestrale lentezza rispondendo esclusivamente ai numerosi vincoli propri dell’evoluzione.

Ipotesi di un repertorio in dotazione alla specie sapiens

<<I nostri crani moderni ospitano una mente forgiata nell’età della pietra>>. Questa icastica frase degli psicologi evoluzionisti Cosmides e Tooby (1997, in Bruni D.) contiene il senso della ricerca di una disciplina estremamente fruttuosa.

La psicologia evoluzionistica studia l’evoluzione della mente umana nel rapporto esistente tra un numero finito di meccanismi psicologici in dotazione alla nostra specie e le cangianti pressioni ambientali della storia umana su tali meccanismi psicologici.

Se vogliamo, la medesima ricerca che stiamo conducendo in questo articolo, ma da prospettive un po’ diverse anche se convergenti.

Le domande che la psicologia evoluzionistica pone, con un certo rigore, all’uomo contemporaneo sono cruciali: secondo quali vincoli biologici e culturali e secondo quali patterns evolutivi è possibile concepire l’attuale vita umana come sostenibile e adattabile rispetto al proprio ecosistema? E, laddove non adattabile, come e dove l’attuale pressione ambientale incide maggiormente su vincoli e patterns non negoziabili (ciò che io chiamo, gli

invalicabili)?

Detto altrimenti, se nell’insieme delle dotazioni umane originarie, alcune di esse sono più strutturali ed altre legate alle contingenze storiche, quale pressione agisce l’attuale società e l’attuale sistema economico e culturale su le une e le altre, e con quali conseguenze pratiche?

Entrando ancor più nello specifico, in che modo i seguenti aspetti strutturali della nostra specie, qui di seguito estremamente sintetizzati ed elencati, risentono della violenza ambientale dell’attuale mondo contemporaneo e su quali le pressioni ambientali trovano adattabilità e dove invece trovano un’invalicabilità strutturale?

Tempo del sonno, tempo di lavoro, tempo per sé, tempo per le cure parentali, tempo per la socialità, abitudini alimentari, abitudini corporee, rapporto con la tecnologia, rapporto con le risorse (economiche), tipologie di organizzatori sociali, tipologie di aggregazioni umane, tipologie di abitazione, modalità di ingresso e uscita dai cicli vitali, senso e qualità della vita sessuale (e rapporto col piacere), organizzazione della vita emotiva, investimento sulla progettualità famigliare e non, investimento sulla creatività e sulle attitudini, rapporto con l’ambiente naturale e con la bellezza.

Ogni punto di questo elenco e l’elenco nel suo complesso possiamo intenderli come repertorio originario della specie sapiens con il quale dover fare i conti in ogni epoca storica.

Se è vero che l’architettura della mente dei sapiens è in sostanza forgiata nell’età della pietra, sarebbe il caso di osservare cosa dei nostri più comuni e attuali stili di vita, specialmente alla luce delle più recenti accelerazioni tecno-sociali, corrisponde ad una vera e proprio violenza a causa della incompatibilità e immodificabilità strutturale della dotazione di partenza. In buona sostanza, la domanda sottesa a questa mia ricerca è la seguente: dove la storia recente dell’uomo ha potuto tirare la corda delle dotazioni di partenza potendo anche migliorare la condizione umana e dove invece le pressioni evolutive finiscono per spezzare la corda?

Domande-chiave per esplorare l’invalicabilità del nostro repertorio di partenza

Quale pressione evolutiva e socio-culturale può sostenere la nostra dotazione di specie di partenza? Per esplorare nel dettaglio le capacità del nostro repertorio di partenza, occorre sottoporre ad osservazione puntuale ogni singolo aspetto di tale corredo bio-psico-morfologico. Proviamo qui, brevemente, attraverso domande dirette, ad interrogare le nostre attuali vite di sapiens contemporanei, nel pieno dell’epoca tardo-capitalista, per indagare su come le sollecitazioni socio-culturali di questo momento storico siano compatibili o viceversa

dirompenti rispetto al nostro repertorio evolutivo di partenza.

E, dunque, le principali domande sono le seguenti:

Quante ore di sonno necessità la mente di un sapiens? E quante ne potrebbe perdere al massimo in una settimana senza doversi ammalare? E’ realmente concepibile rendere flessibile il sonno?

Quante ore di attività-lavoro al giorno può reggere, mantenendo motivazione e efficienza, un sapiens? In relazione a quali sistemi motivazionali? Quanto può “spingere” e per quanto consecutivamente oltre un certo limite personale?

Quanto tempo oniroide solitario improduttivo (me time ozioso) richiede la mente di un sapiens per riordinare memorie, affetti, pensieri, energie? Quanto si può consentire di erodere questa temporalità?

Se si tratta di una famiglia con figli, quali tempi e quali cure parentali sono necessarie ai piccoli e ai meno piccoli dei sapiens per poter crescere mentalmente sani? Quali e quanti tempi e cure sono delegabili a strutture sociali intermedie e quali no?

Quali e quanti rapporti amicali autentici preserviamo? A quali gruppi di amici o conoscenti sentiamo di fare parte? Quanto tempo dedichiamo a tale ambito della nostra esistenza? Quanto sentiamo di essere utili e apprezzati-amati dagli altri prossimi nella vita che svolgiamo? Quanto la nostra vita sociale è sotto l’egida della competizione e della performance e quanto sotto l’egida della collaborazione e cooperazione orizzontale?

Quale regime alimentare seguiamo? Esso rispetta le nostre esigenze e contestualmente anche quelle del nostro ecosistema?

Come trattiamo il nostro corpo-mente? Quanto siamo confidenti rispetto ai suoi segnali e quale dialogo intimo abbiamo con esso? Quali attività e quali tempi dedichiamo per seguire i suoi bisogni?

Quanto tempo utilizziamo nell’uso compulsivo delle tecnologie prevalenti nella nostra epoca? Quanto riusciamo a sottrarci dalla dipendenza e dal dominio di tale temporalità tossica?

Quale rapporto abbiamo con la nostra personale economia? Abbiamo consapevolezza del rapporto tra disponibilità e bisogni essenziali?

Viviamo in una abitazione sufficientemente dignitosa e ospitale?

Abbiamo consapevolezza delle eventuali tossicità delle appartenenze (famigliari o sociali)? Siamo in grado di agire su di esse preservandoci da un eccesso di esposizione a tali tossicità?

Siamo coerenti e aderenti con i nostri bisogni evolutivi relativi ai nostri effettivi cicli vitali? Oppure sentiamo anacronisticamente di possedere un’età troppo superiore (o inferiore) a quelle effettiva? Ci sentiamo sufficientemente attivi e protagonisti della nostra vita sociale o viceversa estranei e inutili?

Siamo sufficientemente sereni con la nostra sessualità? Viviamo la nostra sessualità con la necessaria libertà? O la sentiamo coartata o estranea a noi? Quale rapporto abbiamo con il sistema del piacere?

Facciamo caso ai nostri sbalzi emotivi (stati ansiosi, malinconici, etc.)? Siamo in grado di riconoscere le sfumature emotive e contestualizzarle, di viverle con la necessaria espressività? Siamo in grado di distinguere tra cause esterne e ambientali e vulnerabilità personali rispetto ai nostri stati emotivi?

Riusciamo a proiettarci nel futuro (prossimo e remoto) in termini di progetti, desideri e obiettivi?

Riusciamo a immaginare di mettere a frutto le nostre più vere attitudini al servizio di noi stessi e degli altri? Abbiamo consapevolezza delle peculiarità delle nostre capacità espressive e delle nostre piccole e grandi vocazioni?

Quanto tempo riusciamo a vivere immersi nella natura e a goderne della sua bellezza? Abbiamo un privilegiato rapporto con la bellezza? Abbiamo sufficiente consapevolezza delle criticità ecologiche in corso?

Riflessioni su capitalismo e natura umana

Naturalmente questo elenco di domande non intende affatto essere esaustivo riguardo l’incommensurabile complessità della natura umana, né intende esaurire (e non esaurisce) quel “numero finito” di meccanismi psicologici di cui parla la psicologia evoluzionistica, ma si limita ad intercettarne solo alcuni di essi, quelli ritenuti qui arbitrariamente i più significativi.

Attraverso queste domande giungiamo finalmente nel cuore della nostra analisi, l’opera di aggressione che l’attuale sistema politico economico svolge sulle dotazioni iniziali della specie sapiens.

Questo elenco di domande basiche fa risultare immediatamente evidente la misura con cui gli attuali stili di vita contemporanei tendono a stuprare le più elementari basi psicologiche dei sapiens, ad alienarne le ragioni e le finalità, a convertire ogni aspetto cooperativo in competitivo, a distrarre e sfruttare ogni momento della temporalità fisiologica dei sapiens, a diminuire fino ad annullare i tempi personali, sociali, famigliari, affettivi, psico-corporei, a deturpare e soffocare ogni slancio creativo e espressivo, a rendere incapienti e insoddisfatti perennemente le persone, a rendere le loro vite sempre più precarie e in difetto (debito-deficit) con tutti.

Oggi la consapevolezza drammatica che tale specie, esageratamente predatoria, si sia spinta negli ultimi due secoli, con i propri dispositivi tecnici e politici, ben oltre la sopportazione bio-psichica della propria stessa dotazione biologica è alla base di questa riflessione. Giungiamo dunque a considerare l’impatto del capitalismo sulle nostre dotazioni di base.

Il capitalismo, in quanto sistema socio-economico basato sull’iper-sfruttamento dell’habitat e dell’uomo stesso, ordinariamente chiede alla specie sapiens ciò che essa già da tempo non è più in grado di concedere.

Il capitalismo è il punto di arrivo delirante dell’ auto-incoronazione dell’uomo (ma di un tipo di uomo, avido, onnipotente, utilitarista e sociopatico) a re del mondo, un re infingardo e opportunista, totalmente ripiegato sul proprio ombelico e del tutto indifferente alla distruzione di cui egli stesso è causa. Se vogliamo è il compimento di una certa linea storica che parte dall’inizio della storia e che fa dire al Dio della Genesi (Genesi, 1, 26-28): 26 E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». […] 28 Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra».

Il capitalismo è l’apogeo di questa triste parabola storica nella quale l’uomo ha messo a punto e ha realizzato attraverso nuove tecnologie, questa volta applicate all’intero pianeta, la maniacale euforizzazione del sentimento di illimitatezza ereditato addirittura dalle sacre scritture che designano l’uomo come assoluto dominatore e soggiogatore dell’ecosistema che lo ospita. Lo sfruttamento, come paradigma morale, diventa diritto di occupazione di ogni angolo del pianeta e depauperamento progressivo di ogni risorsa, comprese le energie umane alle quali si applica il medesimo sentimento di illimitatezza destinato a tutto il creato.

Non a caso si moltiplicano le analisi condotte da più parti nell’ambito delle scienze sociali e della filosofia che focalizzano sempre più il nesso intimo tra sistema economico-politico e disagio mentale. Solo per citarne alcuni: Deleuze e Guattari (L’antiedipo. Capitalismo e schizofrenia, 1972); Mark Fisher (Realismo capitalista, 2009); Franco Bifo Berardi: (La fabbrica dell’infelicità, 2001 e tutta la sua produzione più recente); Richard Sennett (L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale. 1998); Nancy Frazer (Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta. 2023); Luigino Bruni (Capitalismo infelice. Vita umana e religione del profitto, 2018); Case Anne, Deaton Angus (Morti per disperazione e il futuro del capitalismo, 2021); Crary Jonathan (24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno. 2015).

Successo evolutivo tra temperanza e tracotanza

Tiriamo dunque le somme di questa lunga peregrinazione e circumnavigazione attorno al rapporto tra dotazioni di base dei sapiens e attuali condizioni di travolgimento delle stesse.

Ciò di cui siamo certi è la storia remota di una specie, la nostra, complessivamente di 200.000 anni, che in capo ad alcune decine di migliaia di anni (dai 70.000 ai 10.000 anni a questa parte) è riuscita senza grandi rivoluzioni tecnologiche, se non quelle in dotazione bio-psico-morfologica, a colonizzare ogni angolo del mondo, dal luogo più temperato e comodo al luogo più impervio e inospitale, contando su competenze probabilmente sviluppate nel lungo periodo precedente (i primi 130.000 anni): quello che Harari definisce rivoluzione cognitiva, cominciata all’incirca 70.000 anni fa.

Questa espansione e questa capacità di adattamento corrispondono esattamente a ciò che ogni biologo definirebbe come un grande successo evolutivo. Un piccolo gruppo di ominidi, l’ultimo cespuglio appena nato, frutto di una lunga storia ominide durata almeno 3 milioni di anni, impara a migrare dal corno d’Africa inseguendo territori di caccia e raccolta sempre diversi, spostandosi prima in Asia ed Europa, poi raggiungendo l’Australia, poi infine in Nord America e solo 12-10.000 anni fa il Sud America.

Alla base di tale successo evolutivo l’insieme, circolarmente interconnesso, di tutte le dotazioni morfologiche, neurologiche, cognitive, linguistiche, organizzative, emotive che troviamo all’inizio di questo articolo nella Tabella riassuntiva (pag 2). Per comprendere meglio le conseguenze di tale successo ancora non è sufficiente tenere assieme circolarmente queste grandi, ma pur sempre limitate, variabili evolutive, ma occorre comprendere che nel corso dei 200.000 anni di vita questa corolla di doti ha generato dei veri e propri salti evolutivi secondari, probabili conseguenze dello sviluppo culturale innescato fin dall’inizio della nostra storia.

E dunque 70.000 anni fa quella che Harari definisce rivoluzione cognitiva corrisponde allo sviluppo della mente narrativa, ovverosia la capacità della mente umana di creare storie inventate, scenari immaginari, miti e leggende che diventano l’ossatura identitaria dei gruppi che a loro volta diventano sistemi motivazionali cooperativi. Tale capacità è evidentemente il risultato della co-evoluzione di competenze linguistiche, di nuove emergenze della vita dei gruppi, di probabili contaminazioni della vita onirica, a sua volta ineludibile strumento di manutenzione e sviluppo del cervello, sviluppo della coscienza di morte, evoluzione della vita emotiva all’interno di piccoli gruppi molto coesi. e così via.

Ugualmente, analoghi salti evolutivi, frutti secondari e preziosi della corolla iniziale in dotazione e dei suoi virtuosi cortocircuiti, possiamo facilmente immaginarli a carico della sempre maggiore organizzazione gruppale, della coscienza di sé, della creatività artistica (disegno, danza, musica), della sessualità e dell’intimità, dell’accudimento e dei legami parentali e di gruppo, dello scambio tra gruppi anche lontani. S’inventa la koinonia (De Maré), il sentimento comunitario di appartenenza e di identità. L’individuo non esiste ancora, e non sarà certamente inventato in questa epoca, ma è il frutto di una storia piuttosto recente.

L’animale culturalizzato, sconfinatamente aperto al mondo, genera, già in epoca paleolitica, questi e altri incredibili frutti secondari come diretta conseguenza del suo abitare quello spazio nuovo chiamato appunto socio-cultura, gruppo.

Il gruppo è il soggetto, l’unico autentico elemento costitutivo identitario, e diventa crocevia da cui passa ogni altra evoluzione: il corpo è il gruppo, le mitologie sono di gruppo, i processi simbolici avvengono in gruppo, così come le cure sciamaniche si svolgono in gruppo, i riti di passaggio sono di/in gruppo, le decisioni si prendono in gruppo, le strategie di sopravvivenza sono di gruppo, le preghiere, le danze, le feste avvengono solo in gruppo, ed infine anche la lingua è del gruppo. Il gruppo precede evolutivamente sia a livello filogenetico che ontogenetico lo sviluppo di tutte le successive competenze dei singoli. Tutta la coscienza, tutta la cognizione e tutta la vita emotiva sono del gruppo e in ciascuno è il gruppo che opera interiormente come insieme vociante inaugurando ciò che gli psicologi contemporanei definiscono come dialogo interiore. Ma anche gli psicologi sociali e di gruppo (S. Foulkes), e alcuni filosofi (G. Simondon), parlano di gruppalità interna, come radice di ogni evoluzione psicologica e come incessante confronto interiore, intuizione che rimanda con ogni probabilità alle matrici ancestrali della mente paleolitica.

Chi conosce e si accosta alla storia della specie e alle sue profonde radici, scopre l’efflorescenza di antichissime competenze secondarie, dirette emanazioni delle proprietà originarie dei sapiens, ed in tal modo si avvicina ad una sorta di coscienza collettiva di specie ancora presente e viva in tutti noi (forse ciò che Jung intendeva come inconscio collettivo?) e rintracciabile in ogni fenomenologia somato-psichica attuale.

I tradimenti blasfemi della tracotanza capitalista

Ma che ne è di tutte queste variabili di successo evolutivo nel momento in cui si moltiplicano le rivoluzioni storiche e i relativi cambiamenti a carico della condizione umana?

Il libro di V. Cregan-Reid, “Il corpo dell’antropocene. Come il mondo che abbiamo creato ci sta cambiando”, è un magnifico affresco storico-antropologico di come i nuovi e successivi stili di vita che si sono alternati nel corso della storia, attraverso le varie rivoluzioni (agricola, urbanistica, industriale, post-industriale) hanno avuto e continuano ad aver un notevole impatto su parti del nostro corpo con esiti talora molto preoccupanti. E’ nozione ormai acquisita dagli studiosi della storia antropologica-fisica, che la maggior parte delle afflizioni a carico dell’apparato scheletrico dei sapiens attuali (ad esempio: alcune stime dicono che il 40% della popolazione soffra di patologie a carico della colonna vertebrale) dipenda dai cambiamenti di abitudini di vita e abitudini posturali degli ultimi decenni della nostra storia. La progressiva sedentarizzazione del lavoro e la vita delle città hanno condotto la maggioranza di noi a vivere la gran parte della giornata della posizione seduta. Posizione che nella nostra specie sembra essere assolutamente innaturale e contraria alla conformazione morfologica di cui siamo originariamente portatori. I sapiens sono stati “progettati” per camminare, correre, sdraiarsi, accovacciarsi, ma non per rimanere seduti a lungo. Ugualmente Cregan-Reid, accanto ai problemi vertebrali, in questo prezioso testo ci avverte della conseguenze sulla morfologia dei piedi, delle mani, dei problemi di alimentazione e intestinali, del girovita e dell’obesità, dei problemi relativi all’inquinamento atmosferico, e così via, l’elenco qui diventa davvero lungo.

Se ci soffermiamo “solo” all’impatto della contemporaneità sulle patologie fisiche a partire dalla violenza subita dalle più comuni abitudini a carico delle nostre antiche dotazioni, entriamo in un ginepraio di conseguenze critiche che da non-medico mi risparmio e mi limito a citare solo in parte. Spostandoci sul terreno a me più confidente delle afflizioni psicologiche e sociali, risultano ancor più evidenti i tradimenti che l’evoluzione dei sapiens ha subito tramite i cambiamenti di condizione.

L’attuale stile di vita è dominato dalla religione neoliberista, l’unica compiutamente globalizzata e universalizzata che non teme la secolarizzazione, l’unica compiutamente introiettata come se fosse un algoritmo intimo da ciascuno di noi, l’unica che ha il potere di veridizione (M. Foucault), il potere cioè di rendere verosimili le proprie narrazioni del mondo. I suoi codici sono automaticamente contrari alle caratteristiche specie-specifiche primarie e secondarie della specie sapiens. Vediamo nel dettaglio:

I sapiens sono una specie la cui mente narrativa e creativa è in grado di altezze inaudite. Hanno inventato la pittura, la musica, la danza, la poesia, il teatro, grazie alle dotazioni iniziali e secondarie. // Il consumismo, motore dello stile di vita neoliberista, usa la creatività ma tende all’omologazione e alla riproduzione, taglia le ali al pensiero divergente per

appiattirlo e annacquarlo dentro le esigenze del mercato.

I sapiens sono una specie che ha consentito fin dalle origini ai propri cuccioli di sostare molto a lungo in un periodo iniziale di vita, la neotenia, di dipendenza e apprendimento delle inedite incombenze specie-specifiche: lingua, socio-cultura, vita relazionale, etc. I sapiens hanno inventato l’infanzia e l’adolescenza come periodo della vita relativamente irresponsabile e protetto. Ma hanno anche inventato l’ardore e l’innovazione giovanile come metodo di progresso intergenerazionale. // Il neoliberismo assegna a infanzia e giovinezza le prerogative efficienti per il funzionamento del sistema socio-economico (B. Barber) assegnando all’acquisto impulsivo, agli status symbols della gadgettistica consumista, ai gusti e ai modi infantili e adolescenziali, valore assoluto di precedenza su tutto. Rimanere giovani e continuare a sembrarlo nell’aspetto e nel modo di pensare non è più un penoso tentativo di negare la ferita narcisistica dell’avanzare degli anni (alla Dorian Grey), ma è diventata legittima operazione di adeguamento al sistema consumistico impulsivo e bulimico.

I sapiens sono una specie in grado di escogitare tecnologie al servizio della propria evoluzione e della protezione del proprio ecosistema. I sapiens sono una specie che si prende cura del futuro tramite le inedite capacità di trasmissione intergenerazionale di codici migliorativi. Pensiero previsionale e pensiero strategico sono la base genetica ed evolutiva di una razionalità positiva. // Le prospettive di sopravvivenza delle logiche economiche neoliberiste sono a cortissimo raggio e tendono ad essere conservatrici e a proteggere modalità oggettivamente distruttive dell’ecosistema legate ai poteri economici di volta in volta dominanti (l’economia “fossile” è ancora quella dominante). Le transizioni ecologiche rimangono lettera morta a causa dell’asservimento della politica all’economia secondo prospettive strutturalmente a corto raggio, quindi intrinsecamente inefficaci.

I sapiens sono una specie la cui organizzazione gruppale cooperativa ha potenzialità quasi infinite per l’evoluzione. I sapiens sono in grado di vivere pacificamente puntando sulla propria prosocialità naturale. // Il neoliberismo professa la competizione come leva di espansione e concepisce la cooperazione come strumento secondario al servizio delle esigenze di mercato. Il neoliberismo annulla l’idea stessa di comunità e di collettività sociale e concepisce il mondo come l’insieme puntuale di individui isolati in competizione costante tra di loro e semplici comparse sulla scena pubblica in quanto produttori, consumatori, sudditi. Il neoliberismo ammette la guerra e il fratricidio come metodo di risoluzione dei problemi tra singoli e gruppi. Il neoliberismo è alla base delle tendenze disaggregative dell’umanità e coltiva sfiducia, isolamento e solitudine di massa. Il neoliberismo ha inventato l’individuo per poterlo isolare e governare totalmente.

I sapiens sono una specie la cui specializzazione emotiva e affettiva intra-gruppo e intra-famigliare raggiunge vette di intensità inimmaginabili. L’amore genitoriale e l’amore di coppia (in tutte le sue varianti) sono salti evolutivi in intensità e profondità rispetto alle altre specie. I

sapiens conoscono e inventano i piaceri dell’intimità (la cura della prole e il piacere sessuale) vivendoli con inaudita intensità (apici della creazione). // Il neoliberismo tende a ridurre fino ad annullare ogni politica per la famiglia come ogni forma di welfare concependolo come assistenzialismo e come spesa improduttiva. Il neolibersimo fagocita ogni temporalità della cura e della vita famigliare e del piacere se non quello legato al consumo, concependolo come tempo inoperoso e sprecato. Il neoliberismo prosciuga ogni energia residua da dedicare a figli e parenti e rende la stessa sessualità merce di scambio e di consumo confondendo l’esperienza edonica con l’edonismo di cui si nutre.

I sapiens sono una specie in grado di empatia naturale, potenzialmente in grado di cura e protezione del prossimo estraneo secondo i codici della curiosità, dell’ospitalità, del dono, dello scambio. I sapiens hanno inventato la fratellanza e la sorellanza. // Il neoliberismo ha calpestato ogni residuale memoria del rispetto e della cura sacra dell’ospite e dello scambio fondato sul dono (M. Mauss). Tali logiche, che sono la base stessa della civiltà, sono viceversa considerate arcaiche e anti-utilitaristiche, contrastano radicalmente con lo spirito utilitaristico e opportunistico sotteso alla propria storia. Il neoliberismo è un sistema fondato sull’indebitamento e sulla costante precarizzazione/insoddisfazione di individui isolati. Il proprio fratello è un debitore o un creditore o comunque un potenziale avversario/competitore sulla scena sociale. Il neolibersimo è un sistema che produce inadeguatezza e infelicità sociale e individuale.

I sapiens sono una specie in grado di convivere pacificamente con il proprio ambiente riconoscendosi parte e non dominatori di esso. Oltre alla bellezza dei prodotti della propria creatività. i sapiens sanno riconoscere la bellezza della natura. I sapiens hanno, in generale, un rapporto privilegiato con la bellezza. // Il neoliberismo è del tutto indifferente verso i destini del pianeta e tanto meno verso la sua bellezza. Il suo principio politico è avere mani libere e crescere illimitatamente senza vincoli di Stato.

I sapiens sono una specie che s’è confrontata immediatamente con la propria limitatezza grazie alla coscienza tragica della morte. La coscienza tragica dell’esistenza è parte dell’evoluzione della specie. // il neoliberismo è viceversa in una posizione pregiudizialmente negante la coscienza tragica della morte e dell’esistenza e afferma il proprio ordine del mondo, altamente assimilabile (e quindi non imposto con la forza), come maniacalmente opposto alla coscienza della fine di sé e del pianeta. Il neoliberismo non concepisce alcun senso del limite e lo rifiuta in ogni circostanza e occasione contro ogni evidenza scientifica e argomentativa. In tal senso il neoliberismo, infantile narrazione di infinita ed onnipotente espansione, sembra spontaneamente mettersi al servizio della pulsione di morte assecondando le tendenze sociopatiche e psicopatiche della società.

Colpita al cuore l’umanità ai tempi del tardo-capitalismo, vede le proprie dotazioni, primarie e secondarie, calpestate e poste al servizio di un sistema distruttivo e autodistruttivo, causa di innumerevoli malesseri e spinte evolutive che sanno di vera a propria blasfemia: l’ingresso

in territorio sacro volendolo ingiuriare. L’uomo calpesta e ingiuria le proprie radici considerandole a torto insufficienze funzionali rispetto a stili di vita sempre più intesi come gli unici possibili, come gli unici utili ed in grado di garantire stabilità.

L’attuale capitalismo vorrebbe produrre una mutazione della specie asservendola ai propri scopi, ma si scontra contro la profondità delle radici ancestrali che determinano un attrito divenuto oramai talmente rumoroso da produrre vergogna e imbarazzo ad ognuno che continui ad aver a cuore l’umanità e il futuro dei propri figli.

Gli invalicabili, contro la pressione dell’attuale civiltà. Dalla resilienza alla resistenza.

Perché l’attuale forma di capitalismo, digitalizzato, universalizzato, globalizzato, spezza la corda che prima semplicemente tendeva? Perché oggi la flessibilità della condizione umana, sospinta da nuovi bisogni performativi, giunge a calpestare territori ancestrali appartenenti al nostro repertorio di partenza?

Sembrerebbe un falso allarme o quanto meno un allarme tardivo considerando la storia remota e prossima del capitalismo che ha visto fin dalle sue origini tirare la corda della condizione umana senza timore di poterla spezzare. Come dimenticare le condizioni disumane delle prime fasi del capitalismo di masse di contadini trasformate in masse operaie disidentitarie del XIX secolo, senza diritti e senza dignità. E come dimenticare l’epoca espansiva del capitalismo fordista a noi più vicina, testimoniata da capolavori cinematografici come Tempi Moderni, di C. Chaplin, o La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri?

Cosa è cambiato da quei tempi remoti del capitalismo? Come e perché la situazione è precipitata? Perché oggi la corda si spezza più facilmente conducendo l’intera umanità sul ciglio del baratro?

Anche allora la perfomatività richiesta calpestava già ampiamente le dotazioni innate dei sapiens chiedendo alla condizione umana ciò che l’evoluzione psicobiologica non poteva in alcun modo consentire. Solo che la vita alienata alla catena di montaggio dell’epoca fordista aveva un inizio e una fine e, chiusi i cancelli della fabbrica, poteva cominciare una vita famigliare, sociale e politica, ancora r-esistente. Oggi l’alienazione ci insegue a casa e in ogni luogo, i confini della nostra opera produttiva non sono più definiti e continuiamo a lavorare gratis per l’economia del mondo semplicemente accendendo un device e collegandoci con la rete. Oggi l’economia non ci chiede solo di consumare il nostro corpo in

una fatica fisica per 8 ore al giorno, ma ci chiede di vendergli l’anima e l’identità e di condividere con essa il senso di adeguatezza e di felicità, ci chiede una compiacenza e una collaborazione intima che assorbe ogni energia residua (che infatti manca nelle relazioni famigliari, sociali e politiche) e che nessun sistema economico ha mai chiesto prima e solo una religione oscurantista può pensare di chiedere ai propri fedeli.

Oggi, a distanza di un secolo, saremmo costretti a rinominare il noto saggio di Freud Il disagio nella civiltà (titolo originario) in Il disagio per la civiltà. Se un secolo fa Freud, già completamente immerso nella cultura capitalista della propria epoca, intravedeva il rapporto di forze tra civiltà (pressioni evolutive storiche) e individuo come una sorta di danno necessario utile a imbrigliare e governare una pulsionalità irredenta e primitiva in cambio di stabilità e ordine, oggi siamo costretti a ripensare all’intero scenario dovendo concludere che tale scambio non ha più alcuna presunta utilità evolutiva e che l’attuale forma di civiltà capitalistica sta chiedendo alla mente umana il sacrificio totale di sé.

Occorre dire che all’epoca di Freud poco e nulla si conosceva di paleoantropologia, di psicologia evoluzionistica, dei processi di ominazione, di neuroplasticità, e di mille altre acquisizioni scientifiche che oggi sono invece disponibili per (tentare di) completare il mosaico relativo alle caratteristiche invarianti della nostra specie. Le ipotesi di Freud sulla natura aggressiva, brutale, pulsionale dei nostri predecessori ignora di fatto 190.000 anni di storia culturale della nostra specie, e le sue letture appaiono particolarmente legate alla sua epoca storica e ben poco alla realtà preistorica dei sapiens, di cui nulla ci fa pensare debba essere stata così animalesca.

Oggi il punto non è più quello di cercare e trovare mediazioni vantaggiose tra pulsioni irredenti e ordine sociale, bensì di riconoscere che le richieste dell’attuale civiltà capitalistica sono diventate di fatto irricevibili da qualunque organismo sano dal momento che ciò che viene richiesto è molto al di là delle possibilità di una mente e di un fisico umano di sostenere tali richieste nel tempo senza autodistruggersi o senza autodanneggiarsi sensibilmente.

Prendiamo come paradigma particolarmente esplicito di tale irricevibilità la situazione che esiste a Taranto (forse non a caso città natale di chi scrive) da 58 anni con il mostro ecologico rappresentato dall’industria dell’acciaio ivi presente ed incombente sulla città. Taranto è la rappresentazione fulgida di come le ragioni sovraordinate e incrociate di interessi economici nazionali e internazionali strategici e interessi occupazionali locali si siano incistate e cronicizzate in una realtà sociale originariamente depressa accettando di mantenere il mostro ambientale assassino alle porte della città le cui migliaia di vittime (stime ufficiali parlano di 1650 morti l’anno, che moltiplicato per 58 anni, fanno 95.700. Si consideri, come paragone, che nel disastro ecologico di Bhopal in India, il 3 dicembre 1984, in uno stabilimento chimico, i morti furono circa 21.000) hanno costituito un prezzo sociale ritenuto ancora oggi, inverosimilmente, sostenibile. Taranto è un esperimento sociale del più

avanzato capitalismo che dimostra che la vita umana può essere tranquillamente deprezzata, degradata e scambiata con qualche migliaio di posti lavoro che i tarantini non riescono a immaginare di riconvertire in alcun modo. Una comunità passivizzata che accetta innumerevoli sentenze di morte in cambio di pure illusioni e soprattutto diventando precursore assoluto, in occidente, della vittoria dell’economia sulla vita.

Ma se Taranto rappresenta, in misura locale e concentrata, un’apocalissi etica dove il prezzo della morte di adulti e bambini diventa di fatto tollerabile e sostenibile (ci si attenderebbe che questa città ospitasse qualche forma di ribellione in embrione, ed invece nulla), se leggiamo il libro di due Professori di Economia di Princeton, Anne Case e Angus Deaton, Morti per disperazione e il futuro del capitalismo (2020), riusciamo probabilmente ad interpretare il punto dell’attuale capitalismo e delle sue conseguenze sulle dotazioni umane, con un inquadramento certamente molto ampio. Tutto ciò da parte di due studiosi assolutamente interni alle logiche capitalistiche e fermamente convinti (diversamente da chi scrive) nelle possibilità di autoriforma del capitalismo.

Si tratta di un libro che nella sua semplicità descrittiva risulta abbastanza sconvolgente in quanto dimostra, con semplici statistiche alla mano, che una certa parte della popolazione americana, in particolare i bianchi adulti non laureati, stiano da un po’ di tempo in qua invertendo le statistiche delle mortalità registrando un sensibile aumento. Da tenere presente che generalmente la mortalità in America e nel resto del mondo è in decrescita anche in fasce di popolazione più svantaggiate dei bianchi non laureati. Per questo gli autori si sono sentiti chiamati da un vero e proprio dato allarmante, inizialmente inspiegabile.

Molte le cause di questa improvvisa e incombente mortalità in questa fascia sociale: aumento di suicidi, aumento di overdose da farmaci, alcolismo, le cui cause ancora più a monte sono l’aumento della sofferenza psichica, il distacco dai contesti di lavoro (esternalizzati), il calo dei salari e del potere di acquisto, i numerosi fallimenti della vita sentimentale e famigliare, l’alienazione e l’isolamento nonché il diffuso sentimento di fallimento personale che determina un’auto-esclusione sociale. Ancora più a monte gli autori individuano cause sistemiche di gravità assoluta: il sistema sanitario non universale, l’accesso all’istruzione impossibile per la classe operaia, i cambiamenti peggiorativi del mercato del lavoro con sempre minori garanzie e sempre maggiore precarietà e ricattabilità del lavoratore, la riduzione delle strutture intermedie politiche e sociali come i sindacati, le organizzazioni religiose e in generale l’annullamento della vita comunitaria, la crisi delle unioni matrimoniali, etc. Impossibile per qualunque studioso serio, seppure massimamente integrato, negare la responsabilità della cultura prevalente economico-politica nell’essere causa diretta del dolore e delle morti precoci di molti cittadini. Masse di persone escluse da qualunque partecipazione alla vita sociale e da qualunque garanzia e protezione.

Dice a tal proposito Richard Sennett, nel suo profetico L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, del 1998, dove preannunciava l’evoluzione poi

descritta da Case e Deaton:

Alla sensazione di non essere indispensabili è logico reagire con la mancanza di responsività. Questo è vero tanto per le comunità flessibili di lavoro quanto per i mercati che sottopongono al downsizing i dipendenti di mezza età. Le reti e i gruppi indeboliscono il carattere, il carattere così come l’ha descritto per la prima volta Orazio, come relazione con il mondo, come modo per «essere necessari agli altri». E’ difficile impegnarsi in conflitti comuni se il nostro antagonista dichiara, come quel dirigente dell’A.T.T., che «siamo tutti vittime del tempo e delle circostanze». Manca l’Altro, e così ci ritroviamo senza legami. I rapporti reali con gli altri, creati riconoscendo le incomprensioni reciproche, sono poi ulteriormente svuotati di significato dal comunitarismo e dal protezionismo morale, da queste chiare affermazioni di valori condivisi, dal «noi» di gruppo delle comunità fantoccio. (Sennett, 1998)

Cominciamo dunque a rispondere alla domanda sul perché l’attuale modello capitalista genera strutturalmente un’impossibilità di ogni mediazione con le dotazioni evolutive dei sapiens.

Il modello meritocratico, pilastro concettuale del capitalismo, transitato negli ultimi 20 anni nell’economia digitale della sorveglianza e della sovraesposizione di immagini e corpi, ha automaticamente provocato un cataclisma sociale: il risultato è stato quello di scavare un baratro classista tra ricchi, colti e integrati e poveri, incolti e disadattati, sempre più poveri, sempre più lontani da possibili riscatti, sempre più isolati e depressi. I criteri di idoneità sociale transitati sui social si sono cristallizzati e sempre più auto-selezionati. L’odio sociale, aumentato a livelli di ingestibilità, è confermato dalla forbice sempre più allargata delle disuguaglianze sociali che determina ormai la suddivisione in caste della società. E più i super-ricchi si arroccano nei loro fortini di privilegi acquisiti e di intoccabilità, più i criteri di ingresso nel club di chi ce la fa diventano sempre più inaccessibili per chiunque.

Un film come La ricerca della felicità, di G, Muccino racconta nel 2006 una storia americana degli anni ’80, dove il protagonista, un nero, povero, separato, sfrattato, con un figlio piccolo, riesce grazie ad un’inusitata (inverosimile) resilienza alle difficoltà della vita a riprendere l’ascensore sociale e riscattarsi. Senza voler entrare nella valutazione del valore artistico del film, il messaggio che l’autore vuole trasmettere agli spettatori nel pieno della mutazione nel capitalismo sociopatico attuale, è che il modello americano dove uno stagista può diventare un dirigente in quattro e quattro otto, è ancora tutto sommato funzionante e promettente. A patto che si impari ad essere sottomesso e resiliente come Chris Gardner (interpretato da Will Smith). Un film che mostra, forse anche involontariamente, quanto enorme può diventare una bugia se si crede che il capitalismo degli anni ’80 sia rimasto più o meno lo stesso degli anni 10 e 20 del nuovo millennio.

Per addentrarci, sempre tramite il linguaggio del cinema, nella verità delle regole del

capitalismo attuale, occorre invece vedere Sorry We Missed You, di Ken Loach (2019). Un film che è un vero e proprio cazzotto nello stomaco e che descrive, in maniera assolutamente realistica e senza sconti e consolazioni, come il cambiamento delle regole del mercato del lavoro (siamo in Inghilterra nel 2009 in piena crisi economica) costringono il protagonista, Ricky Turner (interpretato da Kris Hitchen) marito e padre di due figli, ad affrontare inaudite difficoltà economiche (indebitamento), lavorative e relazionali, per impattare la crisi economica che attraversa in quel momento l’Inghilterra. E’ il periodo in cui il mercato del lavoro inventa le consegne e domicilio divenute negli anni successivi paradigma funesto dell’organizzazione del lavoro e della sua precarizzazione. Ricky viene ad un certo punto aggredito e derubato della merce che avrebbe dovuto consegnare. Un episodio che metterà ulteriormente in ginocchio la sua già precaria condizione esistenziale, ma anche se disperato e gravemente ferito, Ricky risale sul furgone per non smettere di lavorare e di sperare.

Anche Ricky, come Chris del precedente film, mostra un’eroica resilienza di fronte alle difficoltà crescenti delle trame avverse della vita, ma diversamente dal film di Muccino, il protagonista di Loach è tragicamente sull’orlo del baratro e nulla fa sperare che ce la faccia.

La principale differenza tra le diverse epoche del capitalismo risiede esattamente nell’idea che ciascun epoca attribuisce alla resilienza. Il capitalismo attuale ci continua a chiedere quantità di resilienza sempre maggiore, ma in realtà la resilienza è finita. Dobbiamo senza alcuna esitazione dichiarare conclusa l’epoca in cui la resilienza era una qualità positiva dell’adattabilità umana alle difficoltà della vita, anche le più impervie e le più impreviste. Come dimostrano i due film appena citati, a soli 10-15 anni di distanza l’uno dall’altro, siamo passati dall’intendere la resilienza come un portato nobile e positivo della proverbiale adattabilità dei sapiens, ad intenderla come una crudele forma di sarcasmo del tutto inapplicabile e incompatibile con le condizioni psico-fisiche di chiunque.

La resilienza, se diventa pratica ideologizzata e dogma implicito delle pratiche psicoterapeutiche, diventa automaticamente intima nemica della resistenza laddove quest’ultima risulta essere l’unica, ineludibile, soluzione per proteggere dignità, verità, liberazione dei nostri pazienti, come atto preliminare per la difesa della loro salute psicologica (D’Elia L. 2023).

L’attuale forma di capitalismo della sorveglianza, esattamente come tutte le altre forme precedenti, vicine e remote, produce disuguaglianza, sfruttamento, impoverimento, estinzione di specie naturali, inquinamento, tossicità, bruttezza, disumanità, odio sociale, guerre, crisi climatiche, ma oltre a fare tutto ciò in misura crescente e con maggiore sociopatica indifferenza, produce in questi ultimi due decenni al proprio interno livelli di esclusione sociale, disperazione, solitudine, morte prematura, sofferenza mentale, disagi e disturbi esistenziali e di rilevanza medica, fenomeni di massa di tipo settario, crescente indifferenza e disumanizzazione del prossimo, un gigantesco

arretramento-ritiro della libido e una crisi collettiva del piacere, una totale polverizzazione dei legami di coppia, un disinvestimento sulla famiglia, uno smantellamento progressivo di ogni residuo di welfare e tutela sociale, una precarizzazione del lavoro sempre maggiore, un annullamento delle tendenze socio-aggregative mature, un arretramento della pulsione cooperativa.

Tutto ciò in virtù di una maggiore e più pervasiva introiezione da parte degli individui dei codici algoritmici con i quali questo sistema economico intende sopravvivere ad ogni costo. Ognuno di noi è chiamato a contribuire con i propri comportamenti e le proprie scelte a custodire e promuovere l’interesse dell’economia nazionale e mondiale e con essa nutrire l’illusione di fare altrettanto con la propria economia psichica, ormai intesa come convergente e coincidente. I criteri di adeguatezza e di raggiungimento della felicità implicitamente trasmessi si sono talmente interiorizzati da rendere ognuno co-partecipe delle sorti del mondo semplicemente rimanendo incollato al proprio smartphone per almeno 6 ore al giorno (ultime stime medie) o aderendo acriticamente alle sollecitazioni dei mercati. Ma in realtà le due economie quella globale e quella psichica, a causa di dolore, infelicità e morte, tendono oggi a separarsi perseguendo interessi non più convergenti (semmai lo siano stati nel passato).

Viviamo di fatto in un’epoca storica nella quale l’umanità dell’uomo è diventata palesemente nemica dell’organizzazione politico-economica che sorregge la vita del pianeta. E viceversa la folle sopravvivenza di un sistema palesemente dannoso per l’umanità rende l’uomo conseguentemente antiquato, obsoleto, non più piegabile alle esigenze del mercato.

Non ci resta che aggrapparci con le unghie e i denti a ciò che di più profondo si contraddistingue nella nostra umanità: la nostra straordinaria mente paleolitica che ci ha condotto in ogni angolo del mondo e della storia, i nostri invalicabili, le nostre ragioni più profonde che ci legano indissolubilmente alla nostra umanità più originaria.

Ci rimane il tempo, da ri-assegnare a noi e al nostro ozio, ai nostri pensieri oniroidi, il tempo da dedicare ai nostri cari senza riserve e limiti, il tempo per camminare, viaggiare, esplorare, il tempo da sottrarre al lavoro, specie se alienante e insufficiente per sostentarci.

Ci rimane il sonno, da non perdere né negoziare per nessuna ragione

Ci rimane un corpo che vibra ed è pieno di ragioni

Ci rimane la creatività, la poesia, la musica, l’arte, la narrazione e le infinite storie da raccontare ed ascoltare

Ci rimangono gli affetti profondi, gli abbracci, l’intimità

Ci rimangono i progetti, personali e famigliari

Ci rimane il piacere, in tutte le sue innumerevoli forme

Ci rimane il rapporto privilegiato con la bellezza, delle persone, della natura.

Ci rimangono gli incontri con i compagni di viaggio e il sentimento di sorellanza, di fratellanza, di amicizia

Ci rimangono le imprese, grandi e piccole, dei gruppi e delle collettività

Ci rimane, a volte, ma non sempre con soddisfazione, anche il nostro lavoro, possibilmente utile al prossimo, purché non si sostituisca alla vita.

Ci rimangono i pensieri per il futuro nostro e di tutti i giovani a venire

Ci rimangono le emozioni e i ricordi

Non è poco, resistiamo, da qui si riparte.

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